Ci sono il “body shaming”, il “kink shaming”, il “fat shaming”, l’”age shaming”, ma anche il “lunch shaming”, l’umiliazione del pranzo. Un atteggiamento vergognoso che si perpetra nelle aule scolastiche della grande e accogliente America – sì, proprio quell’America tutta luci, che ci viene raccontata dalla pubblicità – nei confronti di quegli studenti che sono nella fragilità economica e non possono pagarsi il pranzo a scuola.

Del lunch shaming ne ha parlato coraggiosamente Arthur Harrison, insegnante di storia americana, che per trentotto anni l’ha visto accadere, senza farci troppo caso, dalla sua aula di storia, dove ai suoi studenti ha parlato della Grande Depressione, delle lunghe file per il pane, della povertà estrema, attraverso fotografie in bianco e nero, che per ragazzi, che vivono in un mondo pieno di colori accesi e rumore costante, sono state di certo un modo diverso di rapportarsi con la vita e la sua improvvisa e lacerante durezza.

Ma – come ha raccontato lui stesso – in fondo la lezione più brutale, se si faceva la giusta attenzione, non si leggeva sui manuali di storia, ma si poteva vivere ogni santo giorno nella sala adibita a mensa della sua scuola. 

Ma un martedì qualsiasi, tutto è cambiato dentro di lui e nella sua scuola. Perché quel giorno ha visto con dispiacere che uno studente timido e silenzioso della seconda superiore, uno di quei ragazzi educati, che non si mettono in evidenza né con i docenti né con i compagni proprio perché sempre defilati e attenti a non farsi notare, si è avvicinato alla cassa per pagare il suo pasto. La cassiera, però, gli ha detto qualcosa e al bancone invece del pranzo caldo, gli hanno dato un panino freddo al formaggio e una bottiglietta di latte. “Il pasto della vergogna” – come lo ha definito il professor Harrison nel suo racconto. 

Il ragazzo, umiliato, è passato davanti agli amici con lo sguardo basso e si è seduto da solo, lontano da tutti, senza neppure avere il coraggio di mangiare quelle due fette di pane raffermo con qualcosa dentro, che gli era toccato, perché il saldo bancario della sua famiglia era in rosso.

“Quel giorno, qualcosa dentro di me si è spezzato” – ha ricordato Harrison, convinto di non poter più assistere a scene simili. Non nella sua scuola, non tra i suoi ragazzi.

La mattina dopo è andato nell’ufficio della mensa, ha parlato con la responsabile, le ha lasciato sulla scrivania una banconota da 50 dollari e le ha detto: – “Voglio creare un fondo. Anonimo. Per i ragazzi che non possono permettersi il pranzo caldo. Quando succede, usa questi soldi. Niente più panini freddi per nessuno.” E così, ogni settimana, portava altri 50, a volte 100 dollari, quando poteva permetterselo. L’aveva chiamato “Il Fondo Invisibile del Pranzo”.

Non ne aveva più parlato con la responsabile della mensa, ma ogni tanto la vedeva consegnare un vassoio caldo a un ragazzo in difficoltà e poi incrociare il suo sguardo con un piccolo cenno. È andata avanti così per un anno. Poi, un giorno, la sua migliore studentessa si è fermata con lui dopo la lezione e gli ha confessato di aver scoperto tutto sul suo fondo per il pranzo degli studenti bisognosi, perché la mamma lavorando in segreteria le aveva detto di queste “strane” donazioni anonime. E lei – non si sa perché – aveva pensato subito a lui, il suo professore di storia.  

La ragazza era commossa per questo suo gesto di amore e ha dichiarato con forza che lei e altri suoi compagni volevano collaborare all’iniziativa. Così lei e un nutrito gruppo di studenti ha organizzato un paio di giorni dopo una vendita di dolci nell’atrio. Sul cartello fatto a mano c’era scritto: “DOLCI PER RACCOLTA FONDI CONTRO I TRADITORI”, perché lasciare un amico a stomaco vuoto è un atto di tradimento. A fine mattinata avevano una scatola piena di banconote stropicciate e monetine e l’hanno poggiata sulla cattedra del professore, in silenzio. Oltre 400 dollari. Un grande risultato, davvero! Un senso di responsabilità inimmaginabile.

Ora che è in pensione, quel fondo esiste ancora. Ma si chiama solo “Il Fondo”. E sono gli studenti stessi a gestirlo. “Per 38 anni ho cercato di insegnare ai miei ragazzi che la storia si fa con grandi discorsi e battaglie epiche, – ha spiegato – ma avevo torto. La storia si scrive anche nel silenzio. Nei gesti gentili. Nel momento in cui qualcuno decide che nessun bambino merita di essere umiliato perché ha fame. E questa è l’America in cui voglio credere. E questa è la lezione più importante che io stesso abbia mai imparato”.

Anna Melillo

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