Nel cuore di una città ligure che non dorme mai, tra il frastuono delle auto e il brusio incessante della vita quotidiana, si nasconde una storia di solitudine e speranza. Questo breve racconto ci parla di un anziano signore, la cui vita è stata segnata da un isolamento così profondo da trasformare la sua casa in un rifugio per piccioni. Nominata sua amministratrice di sostegno, mi sono trovata a scoprire un mondo fatto di piume e silenzi, dove ogni battito d’ali racconta una storia di attesa e di compagnia. Attraverso queste pagine, esploreremo insieme il delicato equilibrio tra la solitudine e la necessità di connessione umana, in un viaggio che ci porterà a riflettere su cosa significhi veramente essere soli.

I nomi dei personaggi coinvolti sono inventati, i fatti descritti raccontano invece la verità di quanto accaduto qualche anno fa.

Sono le 23.00 circa di una tiepida serata primaverile quando il centralino della Croce Bianca, di una località ligure, squilla. Dall’altra parte la voce flebile, ansimante di Giuseppe che chiede aiuto: si sente male, accusa un dolore sordo e persistente al petto, gli manca il respiro e si sente mancare.

Dopo pochi minuti le sirene in lontananza, l’ambulanza raggiunge il suo condominio. Dal verbale dell’unità di pronto soccorso sopraggiunta si scoprirà che le prime parole impresse sulla carta intestata del nosocomio non riguardarono le condizioni di salute dell’anziano paziente ma “…appena entrati abbiamo notato che l’appartamento si presenta molto sporco e in disordine…notavamo una porta chiusa con una catena dalla quale provenivano forti rumori e suoni riconducibili al tubare di piccioni e volatili”. 

Giuseppeviene ricoverato in ospedale: le sue condizioni, seppur critiche, vengono stabilizzate ed il peggio pare scongiurato. I cardiologi che lo hanno preso in cura decidono che è il caso di coinvolgere anche il Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze e chiedere una consulenza. All’esito del consulto psichiatrico si cominciano a delineare i tratti della personalità di Giuseppe: la raccolta anamnestica ricostruisce un passato ove Giuseppe era già stato seguito da alcuni neuropsichiatri, con assunzione di diversi farmaci.

L’indagine approfondisce che alcuni episodi affettivi avevano gettato Giuseppe nel vuoto di un abisso emotivo quando si trovò ad affrontare la separazione dalla prima e (anche) dalla seconda moglie.

Da lì a pochi giorni si ricostruisce il tessuto familiare di Giuseppe: due ex mogli e 4 figli (due femmine nate dal primo matrimonio e due maschi nati in seconde nozze).

Il dolore provato a seguito dei due divorzi aveva lasciato cicatrici profonde nella sua anima: un tempo Giuseppe era un uomo socievole e pieno di vita…ma il suo vissuto lo aveva trasformato in una persona schiva e solitaria, incapace di trovare conforto nelle relazioni umane. Giuseppe soffriva di un disturbo psichico noto come “disturbo schizoide di personalità”.  Questo disturbo si manifesta con una marcata difficoltà a stabilire relazioni sociali ed una tendenza all’isolamento. Le persone affette da questo disturbo spesso preferiscono la solitudine e mostrano poco interesse per le interazioni sociali. Giuseppe non faceva eccezione. La sua casa era diventata il suo rifugio, un luogo dove poteva nascondersi dal mondo esterno e dalle sue delusioni. I divorzi avevano accentuato il suo bisogno di isolamento. Ogni tentativo di avvicinamento da parte dei suoi figli o dei pochi amici rimasti veniva respinto con freddezza. Giuseppe trovava conforto solo nella routine quotidiana, scandita da gesti ripetitivi e prevedibili, che gli davano un senso di controllo in un mondo che percepiva come caotico e minaccioso.

A distanza di pochi giorni dal ricovero in ospedale sarà la figlia più grande a chiedere il mio intervento. Giunge a me attraverso una conoscenza comune che le suggerisce la necessità di tutelare il papà con l’apertura di una amministrazione di sostegno.

Ricordo ancora la prima telefonata con Paola: educata, pacata, onestamente preoccupata per le sorti del padre.

Ascolto le sue parole mentre mi racconta del ricovero del papà e dello stato di abbandono nel quale aveva vissuto negli ultimi anni. Colgo un mal celato imbarazzo, come se solo in quel momento avesse realizzato di aver fatto trascorrere lunghi anni senza far visita all’anziano padre, avendo completamente ignorato come stesse realmente. Giustifica se’ stessa ancorandosi al fatto di vivere in un’altra regione, di avere due bimbe piccole, un marito spesso fuori città per lavoro e l’accudimento della sua famiglia totalmente sulle sue spalle.

La ascolto in silenzio e ripenso a quante volte, in questi 15 anni che mi occupo di amministrazioni di sostegno, sento le voci di figlie e figli, mariti e mogli, che si scusano, cercano una sorta di “assoluzione” per essersi distratti affettivamente dall’ingombro che la fragilità ha creato nelle loro vite. Già, perché quando un nostro affetto viene colpito da una qualche forma di fragilità (dovuta all’età, alla malattia, alla patologia psichiatrica) diventa ai nostri occhi un estraneo che si fa fatica ad accettare.

Paola mi chiede cosa si può fare. Ha curiosato su alcuni motori di ricerca, non sa cosa sia una amministrazione di sostegno (fa confusione – come molti – con l’istituto di tutela della interdizione) teme che suo papà venga rinchiuso.

Facciamo chiarezza in una lunga chiacchierata che termina dopo circa un’ora e mezza di telefonata.

Si impegna a raggiungermi in studio, dopo qualche giorno prendiamo un appuntamento e la ricevo.

Occhi cerulei, sguardo delicato, composta e timida. Mi racconta di quando lei e sua sorella erano piccole e la loro famiglia “funzionava”: papà era biologo, molto appassionato del suo lavoro, capace e brillante. Ad un certo punto qualcosa si guasta, l’ingranaggio ben oliato della loro famiglia si inceppa. Non sa indicare quando e come, sa solo che è successo.

Il papà adorato le lascia per farsi una nuova vita con una donna più giovane, sperpera buona parte di un ingente patrimonio e, a distanza di poco, avrà con questa donna altri due figli. 

Nella nostra chiacchierata veniamo poi agli aspetti che mi interessano per valutare l’apertura dell’amministrazione di sostegno nell’interesse di Giuseppe. Mi racconta del malessere, del ricovero, dell’operazione al cuore e di quella fragilità che ha portato suo papà a convivere stabilmente con una colonia di piccioni.

Mi attivo l’indomani per prendere contatti con l’ospedale ed i servizi sociali già coinvolti. Riferiscono che Giuseppe verrà trasferito presso una Rsa del circondario per un breve ricovero di sollievo utile a capire (anche) se e come organizzare l’eventuale rientro a casa.

Raccolgo il nutrito carteggio anamnestico, inizio a costruire il ricorso per l’apertura dell’amministrazione di sostegno. Illustro nel mio atto il disturbo delirante che interessa Giuseppe, delineo i tratti di personalità schiva e la scelta di condurre una vita ritirata, lontana dagli affetti, dedita alla compulsiva lettura – soprattutto di saggi fantascientifici – ed alla cura di una colonia adi piccioni che sceglie di far vivere all’interno delle sue mura domestiche.

Nei giorni in cui mi dedico alla stesura del ricorso sento telefonicamente Paola e le chiedo di raggiungere insieme la Liguria. Ho bisogno di parlare con Giuseppe, ho bisogno di vederlo e di capire meglio la situazione.

Programmiamo di raggiungere la Rsa un sabato mattina e di trovarci direttamente lì.

Ricordo di essere arrivata in struttura al mattino presto.

Avevo avvisato il giorno prima del mio arrivo ed avevo chiesto al Direttore sanitario di informare Giuseppe che avrebbe ricevuto la visita della figlia maggiore, accompagnata da me. Ho chiara nella mia mente l’immagine di come venivo accolta. Una volta aperto il cancello della struttura entrai in un vialetto, alcuni ospiti erano in carrozzina, nel giardino, a godere della splendida vista sul Golfo del Tigullio. Da lontano vidi avvicinarsi, nella mia direzione, un uomo alto, distinto, avvolto in un morbido maglione di lana dalle tonalità purpuree. Aveva in mano un grosso plico di carta che sorreggeva con fierezza.

Immaginavo fosse il Direttore sanitario che mi veniva incontro per condurmi alla stanza di Giuseppe

Mi sbagliavo.

Era Giuseppe che, informato del mio arrivo, e del motivo per il quale ero giunta a fargli visita, mi attendeva.

Rimasi stupita dal trovarmi di fronte ad un uomo così premuroso ed attento. Percepivo nella sua voce una incontenibile frenesia: ci teneva a farmi vedere la sua stanza, lamentava che il compagno con il quale la condivideva era poco attento all’igiene, mi chiese scusa perché non poteva accogliermi come avrebbe voluto.

Ci accomodammo ai piedi del suo letto, io avevo con me i documenti raccolti in quelle settimane di lavoro ed iniziai a spiegargli, con semplicità, perché mi trovavo lì.

Mentre stavo iniziando a parlare, arrivò Paola. 

Non si vedevano da alcuni anni e quando il papà la vide entrare scoppiarono entrambi a piangere. Fu un pianto liberatorio: la figlia si sentiva in colpa per averlo lasciato così solo nella malattia che, a poco a poco, lo aveva trasformato in altro da lui, in altro rispetto a quel padre che lei ricordava. Giuseppe sembrava finalmente confortato, dopo le settimane di ricovero e poi il trasferimento in RSA per quel “periodo di sollievo”. Vedeva finalmente una delle sue figlie, una dei suoi figli. L’unica che comunque, in qualche modo, non lo aveva completamente dimenticato.

Già…parlando con Giuseppe,  in quel momento contenuto farmacologicamente e ristabilito dopo il duro episodio cardiaco, era ormai chiaro che la sconfortante solitudine in cui era precipitato lo aveva a poco a poco alienato. Alienato in quel mondo fatto di poche cose: garantire ai suoi piccioni un tetto e del cibo, leggere le sue tanto amate riviste sulla presenza – guarda caso – degli alieni ed osservare il mare da lontano, lì dalla finestra della sua camera da letto.

Passò qualche ora, sinceramente non ricordo più quanto ci fermammo ai piedi di quel letto. Era comunque evidente che bisognava procedere con il ricorso per l’apertura dell’amministrazione di sostegno valutando, con accuratezza, il modo migliore per garantire a Giuseppe di tornare ad una vita migliore.

Rientrata a Torino, dopo qualche giorno di lavoro e diversi confronti con alcuni contatti che avevo lì in Liguria, il quadro cominciava a prendere dei colori più nitidi rispetto alle primissime valutazioni. Giuseppe doveva prima di tutto ristabilire un proprio contatto con la quotidianità dimostrando di poter tornare a vivere da solo, quello era l’obiettivo fondamentale. Era infatti importante che si riuscisse a ristabilire un “quotidiano” fatto di vita reale, piccole incombenze domestiche (il più grosso sarebbe stato delegato a personale ad hoc), regolarità nell’assunzione dei farmaci (fondamentale che la cura di contenimento venisse rispettata) e svaghi…seppur piccoli ma occorreva ristabilire un contatto con il mondo da troppo tempo chiuso dietro a quella porta di cucina dove gli unici rumori erano “il tubare di piccioni e volatili”.

Iniziai a scrivere il mio ricorso nelle ore tarde di un pomeriggio, quando i colleghi si attardavano a sbrigare le ultime questioni ancora sulla scrivania, ed il telefono era ormai muto da un po’ perché i clienti sapevano che a quell’ora non c’era più nessuno.

La mole documentale che avrei prodotto rendeva assolutamente chiara la situazione: carteggi sanitari, perizie mediche, foto della grave condizione di abbandono in cui si trovava la casa. Era però necessario che il Giudice Tutelare, che avrebbe deciso sulla richiesta di apertura di quella amministrazione di sostegno, comprendesse che il desiderio era quello di condurre Giuseppe verso una vita degna. Non bastava infatti dare un quadro anamnestico completo, la sintesi patrimoniale, il dettaglio di un estratto conto e poco più. 

Decisi allora di costruire contestualmente il progetto di Giuseppe per Giuseppe. 

Indicai i risultati delle fittissime sessioni di confronto che avevo avuto con la straordinaria Dott.ssa Rossi che, in quelle settimane, nella sua veste di “procuratrice d’aiuto per le Famiglie”, aveva individuato una ditta specializzata nella sanificazione e bonifica della casa ed una figura professionale di assistente famigliare, altamente specializzata, che avrebbe aiutato Giuseppe.

Con la Dott.ssa Rossi avevamo infatti ipotizzato il rientro a casa di Giuseppe, una volta che fosse conclusa la bonifica, supportato da una figura di appoggio che fosse di aiuto non solo nella routine domestica, ma che lo aiutasse anche nella creazione di una nuova dimensione sociale. Venne creato il progetto di un lavoro altamente sinergico dove le figure interessate, e coinvolte, iniziarono a fornire i tasselli utili per comporre il puzzle da mostrare al Giudice Tutelare.

Ci vollero molte ore di lavoro ma il ricorso venne terminato ed inviato al Tribunale competente. Il Giudice Tutelare si pronunciò in meno di due giorni e da lì, una volta depositato il mio giuramento, si poteva iniziare a lavorare nell’interesse di Giuseppe.

Chiamai Paola per dirLe che eravamo pronti e le chiesi di anticipare ai suoi fratelli che avrei voluto incontrarli, magari su piattaforma on line, insieme con il loro papà che si sarebbe collegato da casa.

Per me era importante che si vedessero, si parlassero e provassero a “ricucire” quel rapporto così a lungo sdrucito e consunto. Vedo Giuseppe collegato da casa sua. La luce fioca della lampada da tavolo che illumina il suo volto segnato dal tempo e dalle difficoltà della vita. Il computer emette un suono e, uno dopo l’altro, vedo anche i volti dei quattro figli apparire sullo schermo. 

Prendo la parola, descrivendo la situazione dell’anziano con una voce calma ma ferma. Parlo della solitudine che lo ha spinto a cercare compagnia nei piccioni, della malattia che lo stava consumando, della necessità di un intervento immediato. Sono consapevole che le mie parole risuonano come un pugno nello stomaco. I figli, uno dopo l’altro, abbassano lo sguardo, uno di loro spegne il microfono e la telecamera. Tutti incapaci di nascondere la commozione. 

Ad un certo anche l’anziano Sig. Giuseppe chiede di parlare. E’ felice nel vedere i suoi figli, seppur lontani, seppur proiettati sullo schermo di un pc. 

Vedo la commozione nei loro occhi e sento nascere una speranza. 

Giuseppe sentì un nodo alla gola. Le lacrime iniziarono a scorrere silenziosamente lungo le sue guance. I figli, vedendo il padre così commosso, non poterono trattenere le loro emozioni. Paola fu la prima a parlare, con voce rotta: “Papà, ci sei mancato tanto,” disse, cercando di trattenere le lacrime. Luca, con un sorriso timido, aggiunse: “Non vedo l’ora di abbracciarti.” Anna e Mario, visibilmente commossi, promisero di fare tutto il possibile per aiutare il padre a superare quel momento difficile. In quel momento, vedendo la commozione nei loro occhi, sentì una speranza nascere. Sapevo che il cammino sarebbe stato lungo e difficile, ma quel primo passo era fondamentale per ricucire uno strappo logoro e frusto.

La videoconferenza si concluse con un senso di rinnovata determinazione. I figli in quel frangente, promisero di non lasciare più solo il loro padre. Giuseppe, per la prima volta dopo tanto tempo, sentì un calore nel cuore. La solitudine che lo aveva accompagnato per anni iniziava a dissolversi, sostituita da quella rinnovata attenzione che i suoi figli stavano cercando di dimostrargli.

Questa amministrazione di sostegno è stata da me gestita e curata per diversi anni. Attualmente il Sig. Giuseppe è seguito da una nuova amministratrice, del territorio, che può garantirgli quella prossimità che serviva nello sviluppare l’articolato progetto che avevo iniziato qualche anno prima.

La storia di Giuseppe è stata una delle più emozionanti in questi anni di lavoro in cui mi occupo di amministrazioni di sostegno e durante i quali ho conosciuto tante vite spezzate e tanti legami distrutti.

Giuseppe ha rappresentato, inizialmente, il senso di una solitudine drammaticamente imponente capace di inghiottire, nel suo silenzio, una intera vita ma, nello stesso tempo, la rinascita delle speranze, della voglia di ricominciare e della forza di tornare a vivere, guardando dalla finestra di una camera da letto, affacciata sul Golfo del Tigullio, un piccione che vola via.

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