Gli atti dispositivi di materiali tossici: la vendita non può valere come esonero da responsabilità verso i terzi
Una recente pronuncia di merito fa risaltare chiaramente le possibili interferenze tra tutela dell’ambiente ed attività contrattuale, evidenziando altrettanto chiaramente come la seconda non possa in nessun modo affievolire la prima: “In materia di gestione di rifiuti, la natura di ‘rifiuto’ acquisita da un bene in base ad elementi positivi (ovvero il fatto che si tratti di residuo di produzione di cui il detentore vuole disfarsi) e negativi (ovvero che non abbia i requisiti del sottoprodotto), non viene meno in ragione di un accordo di cessione dello stesso a terzi, senza che possa rilevare il valore economico ivi riconosciuto al medesimo, occorrendo far riferimento alla condotta e alla volontà del cedente di disfarsi del bene e non all’utilità che potrebbe trarne il cessionario”: Tribunale di Cassino, sez. pen., sentenza 3 febbraio 2025 n. 202.
Ne consegue che l’attività di disposizione del “rifiuto” rimane comunque regolata dal Decreto Legislativo 152/2006, che prevede per la violazione delle norme che disciplinano la materia sanzioni sia amministrative che penali. In particolare l’articolo 256, comma primo, sanzione l’attività di gestione di rifiuti non autorizzata con la pena dell’arresto da tre mesi a un anno o con l’ammenda da 2.600,00 euro a 26.000,00 euro se si tratta di rifiuti non pericolosi,e con la pena dell’arresto da sei mesi a due anni e con l’ammenda da 2.600,00 euro a 26.000,00 se si tratta di rifiuti pericolosi. E’ fatta salva l’applicazione delle più gravi sanzioni penali nel caso la fattispecie concreta integri gli estremi dei delitti di inquinamento ambientale, disastro ambientale, traffico e abbandono di materiali ad alta radioattività, impedimento del controllo e omessa bonifica, di cui agli articoli da 452-bis a 452-terdecies del codice penale.
La questione che merita qui un approfondimento (ed un richiamo) è quella della responsabilità per i danni alla salute che fossero derivati a terzi dalla condotta dell’acquirente (non in possesso delle prescritte autorizzazioni) dei rifiuti che ne avesse disposto senza adeguate misure di sicurezza, e più precisamente se possa configurarsi, oltre alla responsabilità per fatto illecito dell’acquirente, anche quella del venditore. La questione involge la tematica del nesso di causalità ed a tal fine sembra utile richiamare le considerazioni svolte nella trattazione dell’analogo caso internazionale Boliden (su cui si può consultare utilmente F. Valenza, Il difficile, a volte drammatico, rapporto tra business e human rights. Fatti, principi, riflessioni, Milano, 2021, pp. 45-47; 136-138).
In particolare, ora come allora, si esprime la convinzione che un corretto utilizzo del principio della causalità adeguata o più probabile (e del principio della solidarietà di tutti i soggetti che contribuiscono alla causazione del danno) consentirebbe di affermare, nel caso ipotizzato, la responsabilità aquiliana, sia dell’acquirente, sia del venditore dei rifiuti. Ed infatti, secondo il principio di causalità adeguata (che supera la teoria della condizione sine qua non), il risultato deve essere una conseguenza naturale, adeguata e sufficiente del comportamento.
Più precisamente, il principio della causa adeguata non intende stabilire se un elemento di fatto sia la causa fisica di un risultato, ma vuole dare risposta alla domanda se determinati fatti devono essere considerati giuridicamente rilevanti e se permettono la imputazione giuridica dell’evento – risultato a una determinata persona. Il problema consiste, quindi, nell’individuare i fondamenti di detta imputazione ed i criteri giuridici che permettono di verificarla o di escluderla. Ed i principali criteri, formulati dalla dottrina, che consentono di escludere detta imputazione, per la rottura del nesso di causalità, sono quelli per i quali il danno verificatosi costituisca un rischio generale della vita, e/o la considerazione che la condotta alternativa corretta non avrebbe evitato la produzione del danno (cfr., in tal senso, la dottrina richiamata nell’opera da ultimo citata, ivi, pp. 136-137, testo e nota 354).
E nel caso ipotizzato è evidente che la produzione del danno alla salute a terzi non potrebbe essere considerato sussumibile nel rischio generale della vita proprio se ed in quanto si accerti che la condotta alternativa corretta esigibile dalle parti del contratto di disposizione dei rifiuti avrebbe evitato la produzione di quello specifico danno alla salute che, in base alle conoscenze medico-scientifiche, deriva dalla esposizione a quella categoria di rifiuti (cfr., in ambito penale, l’art. 452-ter c.p. che inasprisce le pene in caso di morte o lesioni, quali conseguenze, benché non volute dal reo, del delitto di inquinamento ambientale); ed è chiaro, di contro, che se il disponente dei rifiuti avesse contrattato con soggetto legalmente abilitato allo smaltimento degli stessi, l’eventuale condotta non a norma di quest’ultimo – cui il disponente non avesse partecipato o in alcun modo contribuito – avrebbe spezzato il nesso di causalità rispetto all’atto dispositivo.
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