La Sesta Sezione penale della Suprema Corte, con la sentenza 11/09/2025, n. 32839, precisa limiti e presupposti del delitto di resistenza a pubblico ufficiale, con particolare riferimento a un fatto avvenuto a scuola, chiarendo che il ruolo chiave spetta al dolo specifico.
“Appena finisce la scuola vengo a trovarti, non è una minaccia ma un avvertimento, per me le regole non valgono, tu mi hai fatto sospendere per 25 giorni“. Per questa espressione intimidatoria, rivolta a scuola, nel corso di una lezione, al suo insegnante di scienze motorie, la Corte di Appello, Sezione minorenni, di Milano confermava la sentenza di condanna emessa a carico di uno studente in relazione al reato di resistenza a pubblico ufficiale.
La difesa del ragazzo è, così, ricorsa in Cassazione, perché:
1. l’imputato lamentava violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla stessa configurabilità del reato di cui all’art. 337 c.p.. Secondo la tesi difensiva, la frase non sarebbe stata in alcun modo diretta ad ostacolare un atto d’ufficio (l’irrogazione della sospensione). Ad avviso dei legali, infatti, la Corte di Appello avrebbe “indebitamente valorizzato” il collegamento tra la frase e la precedente sottoposizione del minore alla sanzione disciplinare della sospensione per 25 giorni dalla frequenza delle lezioni. In realtà, però, nel momento in cui la frase stessa era stata pronunciata, la sospensione era stata già irrogata, sicché non poteva sussistere alcun nesso tra la minaccia e l’esercizio della pubblica funzione.
2. veniva dedotto il vizio di motivazione in ordine al mancato riconoscimento della particolare tenuità del fatto.
La Corte di Cassazione ha ritenuto fondato il ricorso.
Secondo la Suprema Corte, il primo motivo di ricorso pone la questione della corretta qualificazione giuridica della condotta che è stata compiutamente accertata. In base alle risultanze istruttorie l’imputato, durante lo svolgimento di una lezione di scienze motorie, avrebbe proferito la frase suddetta, all’indirizzo del proprio insegnante, ma “il senso della frase può essere compiutamente colto solo premettendo che l’imputato era stato sottoposto alla sanzione disciplinare della sospensione e, quindi, la frase si poneva chiaramente quale una forma di indebita rimostranza avverso un provvedimento già in precedenza adottato”. Proprio in virtù di ciò, il Supremo Collegio ha ritenuto fondata la tesi difensiva, volta a negare la configurabilità del delitto di resistenza a pubblico ufficiale, in quanto la condotta minatoria non nasce “per opporsi” al compimento di un atto da parte del pubblico ufficiale; piuttosto come “manifestazione di una personale avversione indotta da fatti precedenti”. Pertanto non c’è dolo specifico,
“si concreta nel fine di ostacolare l’attività pertinente al pubblico ufficio o servizio in atto, cosicché il comportamento che non risulti tenuto a tale scopo, per quanto eventualmente illecito ad altro titolo, non integra il delitto in questione. (Sez. 6, n. 36367 del 6/6/2013, Lorusso, Rv. 257100)”.
Quindi le espressioni minacciose rivolte all’insegnate, non rivelano alcuna volontà di opporsi allo svolgimento dell’atto d’ufficio, ma rappresentano piuttosto una forma di contestazione della pregressa attività svolta dal pubblico ufficiale (Sez.6, n. 31544 del 18/6/2009, Graceffo, Rv. 244695).
Pertanto, il reato di cui all’art. 337 c.p. non può ritenersi consumato se non in presenza di uno stretto collegamento causale, sorretto dal dolo specifico, tra la violenza e le minacce e il compimento di un atto d’ufficio. Viceversa, non è sufficiente il mero fatto che le minacce siano rivolte ad un pubblico ufficiale in occasione del compimento di un’attività inerente alla sua funzione, in mancanza della volontà e idoneità della condotta ad impedire il regolare svolgimento di un atto d’ufficio.
Facendo applicazione di tali principi alla fattispecie concreta, la Corte osserva come la condotta realizzata dall’imputato sia consistita nel pronunciare una frase minacciosa e lesiva dell’onore del pubblico ufficiale, mentre questi era intento allo svolgimento della propria funzione (tale dovendosi qualificare l’attività di insegnamento).
Tuttavia, secondo la sentenza in esame, “difetta la finalità della minaccia a impedire il compimento dell’atto d’ufficio, posto che i giudici di merito non hanno in alcun modo accertato che la minaccia era diretta ad impedire la prosecuzione della lezione, piuttosto che all’assunzione di ulteriori provvedimenti disciplinari nei confronti dell’alunno”. Anzi, risulta pacificamente accertato che la minaccia era direttamente collegata ad un atto d’ufficio già integralmente esauritosi, individuabile nella pregressa adozione di un provvedimento di sospensione dalla frequenza delle lezioni. Il ricorrente, pronunciando le parole oggetto del contendere, non aveva inteso impedire il compimento di un atto d’ufficio, bensì aveva assunto una condotta minatoria riferita ad un atto pregresso, già compiutamente posto in essere.
Tuttavia, nell’accogliere il motivo di ricorso relativamente alla erronea configurazione della condotta in termini di resistenza a pubblico ufficiale, la Corte ha precisato la necessità di esaminare la possibilità di sussumere detta condotta nell’alveo di distinte ipotesi di reato.
In astratto, infatti, la frase rivolta all’insegnante ben potrebbe essere ricondotta al reato di minaccia, ex art. 612 del c.p., aggravato ai sensi dell’art. 61, n. 10) c.p., ovvero nella diversa ipotesi di oltraggio a pubblico ufficiale (art. 341 bis del c.p..
Proprio perché l’eventuale diversa qualificazione della condotta richiede una rivalutazione nel merito dei fatti, la Cassazione, nell’annullare la sentenza dei giudici di appello, ha disposto il rinvio ad altra Sezione della medesima Corte di Appello, Sezione minorenni.
ANNA MELILLO

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