Una recente pronuncia di merito in tema di danno esistenziale da immissioni ha riguardato un caso in cui la parte attrice aveva lamentato rumori di fonte meccanica derivanti da aspiratore centrifugo dei fumi di cucina di un sottostante ristorante, protratte per sette anni tutti i giorni dalle 10.30 alle 15.00 e poi dalle 19.00 sino alla chiusura dell’esercizio ed anche nei giorni festivi.

Il tribunale adito, dopo aver affermato che il danneggiato che richieda il risarcimento del danno da immissioni è tenuto a provare di avere subito un effettivo pregiudizio in termini di disagi sofferti in dipendenza di una difficile vivibilità della casa, ha precisato che lo stesso può a tal fine avvalersi anche di presunzioni gravi, precise e concordanti, e sulla base delle nozioni di comune esperienza.

Il tribunale ha così ritenuto sussistente e liquidato il danno costituito dal pregiudizio arrecato al diritto al normale svolgimento della vita familiare ed alla piena esplicazione delle abitudini di vita della parte attrice (Tribunale di Taranto, sezione I civile, sentenza 7 maggio 2025, n. 1078 – Giudice Mingione).

La pronuncia riguarda uno dei campi privilegiati che ha visto l’emersione della categoria del danno esistenziale, emersione resa difficile dalla tradizionale dicotomia patrimoniale/non patrimoniale, o meglio dalla formulazione in negativo contenuta nell’articolo 2059 cod. civ., il quale apparentemente sembrava porre dei limiti di tipicità alla risarcibilità dei pregiudizi non afferenti alla sfera reddituale-patrimoniale del soggetto.

Il primo scossone alla rigidità di tale impostazione fu inferto dalla pronuncia di Corte costituzionale, 14 luglio 1986, n. 184, la quale chiarì che le limitazioni di tipicità previste dall’articolo 2059 cod. civ. potevano riferirsi soltanto al danno morale soggettivo, vale a dire alle sofferenze e patimenti, ma non potevano precludere la risarcibilità dei pregiudizi conseguenti alla lesione del bene salute, a prescindere dalle conseguenze economiche degli stessi.

Detta pronuncia veniva così ad aprire un sentiero che conduceva ad una landa ancora inesplorata che la dottrina più sensibile avrebbe provveduto ad illuminare e far fiorire.

Affermata, infatti, dalla Corte Costituzionale la piena risarcibilità dei pregiudizi arrecati dalla lesione del bene salute al fare areddituale della persona, la stessa conclusione non poteva non valere qualora quei pregiudizi al fare areddituale della persona fossero dipesi dalla lesione di altro bene della vita meritevole di tutela alla luce dell’ordinamento giuridico.

Certo, come scriveva, con bellissima immagine, Paolo Cendon nel suo saggio “Non di sola salute vive l’uomo” (in Studi in onore di P. Rescigno, V, Milano, 1998), la Costituzione può essere utile ma solo alla stregua di un punto luce particolarmente intenso che ci aiuta a vedere delle realtà già esistenti.

Ed infatti il diritto civile deve essere di per sé in grado – e lo è stato storicamente – di fornire risposte adeguate alle istanze di tutela via via emergenti dalla realtà.

E così l’esigenza (e meritevolezza) di tutela dalle immissioni intollerabili provenienti da fondo altrui è già presente, sia pure a livello di mero indice o frammento, nell’articolo 844 cod. civ., anche se lo stesso non può certo essere considerato esaustivo di una pienezza di tutela che solo il giurista può e deve saper fornire.

Come fare ce lo dice magistralmente Paolo Cendon: “ritoccare (se non proprio rovesciare) i termini dell’approccio consueto. Un pò meno riverenza per la lettera dei codici, per i raccordi sistematici, per le equazioni di bottega. Maggiore attenzione per gli indici testuali sommersi. … scoprire la creatura umana (le sue ragioni di stato e di moto, grandi e piccole) nelle pieghe anche riposte degli articoli”: P. Cendon, Non di sola salute vive l’uomo, Key editore, 2015, 22; diffidando dalle definizioni al negativo, talvolta utili all’inizio ma sempre imprecise e spesso fuorvianti, aiutando e favorendo così quel processo naturale secondo cui “le antitesi devono a un certo punto cambiar pelle, uscire allo scoperto – gettare le ‘loro’ foglie”: P. Cendon, ibid., 21.

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