𝘔𝘢𝘮𝘮𝘢

Mia madre adesso.  Veniva da una famiglia numerosa, non proprio abbiente; ancor più modesta di quella di papà, come censo e abitudini.

Suo padre, cioè il mio nonno materno, lavorava presso l’Archivio di Stato; a un livello decoroso, non certamente apicale. Lui e mia nonna si erano conosciuti a Trieste, non giovanissimi, si erano sposati nella locale chiesa di Sant’Antonio, all’inizio del secolo scorso.  Avrebbero avuto successivamente cinque figli, tutti nati a Venezia, quasi un parto all’anno.

 Era l’ultimogenita di casa, mia madre; Luigia all’anagrafe, anche se nessuno in famiglia usava quel nome, lei per prima non lo amava. La chiamavano Ina. Aveva due sorelle – non parliamo per ora dei fratelli maschi – e non assomigliava a nessuna delle due. Non a sua sorella Antonietta, che era la maggiore: una donna alta di statura, corpulenta, non tanto bella e di indole austera, alquanto prepotente. Non a sua sorella Nuta: che era bruna, altruista, di carattere remissivo, non dotata di grande salute. 

  Da entrambe era diversa Ina – così, ripeto, la chiamavano tutti, sia in famiglia che fuori.  Femminile, naturalmente elegante: parlo di quand’era ormai una signorina. Magra, alta un metro e settanta, occhi lunghi e intensi, bel sorriso.

Un viso che spiccava, guance magre, piena di aspettative di vita.

   Fin da adolescente   si notava al primo impatto   quello che, a lungo, sarebbe rimasto il tratto dominante in lei: il contrasto fra una cert’indole avventurosa, per non dire passionale, vagamente languida, in viso o in qualche gesto, e un animo attento invece al profilo dei doveri, al confine con la severità, esigente verso se stessa e verso gli altri.  

  A scuola si era diplomata alle magistrali, sarebbe stata adatta poi, come qualità naturali, a continuare gli studi: era intelligente e amava la cultura, soprattutto nelle lettere. Già allora suo padre non godeva però di buona salute (sarebbe morto presto), in casa giravano pochi soldi; aveva dovuto   impiegarsi quasi subito, Ina, rinunciare a qualche sogno giovanile. 

  D’estate la mandavano, i primi anni, in colonia presso un certo collegio, nel bergamasco; dove doveva sopportare cibi scadenti, la solitudine, un gran freddo la notte, senza coperte, e la durezza di certe suore.  La notte piangeva, di rabbia e di nostalgia. 

 A Venezia c’era stato poi un lungo periodo di fidanzamento, per lei, col dirigente dii una società pubblica: un uomo impegnato anagraficamente, che si lavava poco, che la illudeva giorno per giorno, da cui lei non riusciva a staccarsi; uno debole di indole, coi guanti di camoscio chiaro e le unghie sporche. L’aveva poi lasciata lui. 

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