Si addiceva la neve all’anima veneziana, secondo me: forse perché della nebbia era l’opposto, così bianca e compatta, dopo un po’ che la vedevo scendere  dal cielo. Un che di purezza, tersa sugli alberi, era come volevo fossero sempre i fiocchi, via via che cadevano.

  Silenzio e pace per ore di fila: sopra le terrazze, guardavo dalla finestra della mia stanza, intorno alle chiese, sui campanili.

  Male quando si sporcava, il manto candido, se brillava di meno, cominciando a gocciolare magari, ad appesantirsi: note di grigio, di un po’ sporco, la normalità che riprendeva, niente più incanti visionari.  

  Giocavamo sempre con le novità celeste, a scuola nell’intervallo; di solito nel cortile della ‘’Scarsellini’’, anche se di neve non ne cadeva quasi mai abbastanza, per poter fare un pupazzo: alto un metro e mezzo, cioè, coi bottoni   per occhi, il cappellaccio, una finta pipa. 

  La pioggia in laguna adesso, mattina o pomeriggio che fosse.

   Bella quand’era delicata, a gocce rade e sottili: così piaceva a me, leggera nel suono, quasi impercettibile, come nei versi dei poeti che leggevamo in classe. Specie quando la si vedeva scendere lenta in bacino, sul Canal Grande; finché non diventava troppo fitta.

Si sa che di porticati lunghi, per ripararsi, ne esistevano solo in Piazza. Ci andavo spesso quando potevo. Da un lato le Procuratie, quelle vecchie e quelle nuove; entrambe piene di negozi, sul lato esterno, di caffè, fatte apposta per passeggiare.  Dall’altro il   Palazzo Ducale, arcate su entrambi i fianchi; alte e spaziose, panchine contro il muro, l’ideale per una sosta.

Abbondavano in città i sottoportici brevi, di mero passaggio, mettevano in comunicazione i ponti, le calli; ciascuno pochi metri al coperto,   grosse travi, luce scarsa, gatti, rifugi    in caso di urgenza.   

 Odiavo bagnarmi scarpe e calzetti, nelle pozzanghere, mi raffreddavo facilmente: detestavo le galosce, allora in uso, esistevano anche quelle per bambini, un po’ ridicole coi bottoni.   Meglio gli stivaletti, di gomma spessa, al ginocchio; difficile   non inzupparsi però quando scrosciava.

Quanto all’ombrello occorreva mezzo chiuderlo,  in tante callette, quelle larghe meno di un metro, si procedeva per forza a sghimbescio allora; non ci si proteggeva granché, facile anche scivolare, scontrarsi con gli altri passanti.

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