E’ di questi giorni il caso di una madre, che, nel fare manovra con la macchina, ha investito il figlioletto di 18 mesi, rendendolo invalido a vita. Il Pm ha chiesto che non venga condannata: la donna, egli ha detto, ha già il suo ergastolo.

Il paragrafo 60 del codice penale tedesco, l’articolo 34 del codice penale austriaco, l’articolo 29 del codice penale svedese prevedono una cosa simile: consentono ai giudici di non irrogare alcuna sanzione quando l’autore del reato abbia patito un danno significativo in conseguenza della sua azione.

Era questa una idea di Kant, sostenitore di una teoria assoluta della pena, trasposta dall’ambito morale a quello giuridico: la pena si applica solo se è moralmente necessario punire. Nel caso di una madre che causa, non volendolo, la morte del figlio, non è moralmente il caso di applicare una sanzione giuridica, poiché la madre, perdendo il figlio, ne subisce già una di carattere naturale. E se non è il caso di punire moralmente, non lo è neanche giuridicamente.

Questo, corollario, secondo il filosofo tedesco,  deriva della funzione retributiva della pena, che deve essere commisurata ad una azione ingiusta, e non eccederla. Due sanzioni, quella naturale e quella giuridica, invece eccedono.

La ragione di fondo di una simile prospettiva è bene espressa dal testo del paragrafo 60 del codice penale tedesco: l’applicazione di una sanzione da parte dello Stato a chi si è punito da solo, è priva di scopo. Quale altra rieducazione il colpevole potrebbe ricevere da una sanzione statale, oltre alla pena ed allo strazio che egli prova per la perdita che ha causato?

La finzione letteraria è di supporto: Raskol’nikov, in Delitto e Castigo, comincia ad espiare la sua pena interiore subito dopo aver commesso il fatto.

Ma il tema non appartiene solo alle astrazioni. E’ stato concretamente posto, circa un anno fa, dal Tribunale di Firenze, che ha chiesto alla Corte Costituzionale di introdurre nell’ordinamento penale un meccanismo simile: lasciare il giudice libero di decidere di non punire un familiare che, per sua colpa, ha subito la perdita di un congiunto, come nel caso di un padre, che guidando imprudentemente, ha causato la morte del figlio. Costui sopporta già una pena per quel che ha fatto.

La risposta della Corte Costituzionale è stata negativa, per ragioni tecniche, che però non precludono la possibilità di un futuro ripensamento, se stimolato nei corretti termini: Il giudice che aveva sollevato la questione, infatti, aveva chiesto che l’autore del reato venisse dichiarato non colpevole, quando invece la questione è se, ferma la sua colpevolezza, gli possa essere evitata la sanzione.

Ma non è questo il punto.

Spesso un reato non ha solo una vittima primaria- il figlio morto per l’imprudenza del padre- ma ne ha anche una secondaria: l’altro genitore, che, pur senza aver fatto alcunché, subisce allo stesso modo una pena di natura; egli porterà con sé la sofferenza di quella perdita cosi come la porta l’autore del fatto.

E allora è il caso di ricordare che la sanzione applicata a chi ha commesso il fatto serve anche a retribuire la vittima secondaria, quella che il linguaggio dei codici designa come parte civile del reato: se un genitore ha fatto un danno grave al figlio, per una imprudenza di guida, occorrerà tener conto che anche l’altro genitore ne soffrirà, senza averne colpa.

Forse il dibattito che si è aperto sulla pena naturale è significativo dell’esclusiva o quasi attenzione che, nel processo penale, si dedica all’imputato e della ridotta considerazione che invece si appresta alle vittime del reato.

Giuseppe Cricenti

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