Avevo diciannove anni quando capitai in quel collegio a Pavia, mi ero iscritto a Giurisprudenza. L’usanza era che gli ultimi arrivati subissero le vessazioni goliardiche degli anziani, senza protestare; ero arrivato in ritardo, ebbi l’onore di ogni attenzione concentrata su di me, per qualche giorno. Fin dalla prima sera un ragazzo del mio anno, lo chiamerò Flavio (quasi il nome vero), che faceva anche lui giurisprudenza, mi aiutò in vario modo a sfuggire alle angherie più odiose.
Diventammo amici. Castano, ricciuto, occhi verdi, occhiali spessi: ligure di origine, leggeva dei libri strani, recitava poesie, studiava cose che neanche sapevo esistessero. La vita dei ragni, i segreti della scienza, le stelle, le incognite della solitudine. Figlio unico, orfano di padre, qualche amica, nessuna vera fidanzata.
L’inverno, lezioni a parte, lo passammo a esplorare Pavia e dintorni. Io gli parlavo di me. Entravamo in piccoli cinema dei tempi dei fratelli Lumière, dove si proiettavano vecchie pellicole del dopoguerra. Gli argini del Ticino erano pieni di nebbia, c’erano piccole latterie per studenti, dove facevano una cioccolata spessa, le lezioni erano noiose.
Poi arrivò la primavera, tutto era in fiore. Con Flavio cattiverie per gioco, affettuose, lo prendevo in giro, gli nascondevo gli occhiali; eravamo grandi amici: quando andavamo a casa, per le feste, tornavamo contenti in Collegio, sapendo che ci saremmo rivisti.
Il fatto accadde in giugno. Preparavamo Istituzioni di Diritto Romano, il testo era l’Arangio Ruiz, un tardo pomeriggio in cui sapevo che Flavio era fuori, capitai nella sua stanza, per fargli uno scherzo. Sul tavolo il libro c’era, mi guardai intorno per cercare dove nasconderlo, l’unico posto possibile era l’interno di una valigia di pelle, che stava sopra l’armadio. Montai su una sedia, tirai giù, aprii lo spesso coperchio, stavo per riporre il manuale quando mi accorsi che sul fondo c’erano dei giornaletti. Li tirai su, li sfogliai brevemente, erano scritti in inglese, pieni di foto: strane immagini, uomini seminudi che mostravano i muscoli, oliati e lucidi, che ostentavano pettorali e bicipiti, qua e là dei tatuaggi.
Per due minuti non capii, poi la verità si fece luce: Flavio era un omosessuale. Non mi era mai passato per la mente, nessun sospetto, neanche sapevo cosa significasse esattamente … però a pensarci meglio, sì, mi dicevo: quel suo languore, sempre in attesa, tutti quei mesi a supplicarmi quando lo tormentavo, quello strofinare la sua guancia sulla mia, di spalle, quando si sporgeva sugli appunti che stavo sottolineando.
Tutti segni, lo capivo adesso, dei suoi bisogni; delle sue voglie di tepore, dolcezza, di cui continuava a non parlarmi.
Lasciai l’Arangio Ruiz sul tavolo, rinunciai a nasconderlo.
Per qualche giorno non dissi niente, non mi feci vedere; non sapevo cosa pensare. Poi affrontai Flavio.
Lui ammise subito tutto, sembrava una liberazione. A un certo punto della sua vita, pochi anni prima, aveva capito di essere fatto così. Non era mai successo niente, ne aveva parlato solo con sua madre, vagamente, lei capiva fino a un certo punto.
Si era innamorato di me fin dalla prima sera, confessò, aveva subito immaginato di non poter essere corrisposto, non in quel modo; andava bene lo stesso. Gli era sufficiente vedermi, sentire il mio odore, indovinava ch’erano cose di cui mi intendevo poco, che avrei potuto avere reazioni strane; neanche lui del resto era un esperto. Quei giornaletti di foto erano cose senza importanza, c’era anche quel lato della faccenda, sì, solo teorico per il momento. Chissà un giorno!
Risposi che ero offeso, arrabbiato: avrebbe dovuto dirmi tutto subito, così mi sentivo preso in giro. Si scusò, rispose che in fondo non cambiava niente; a lui bastava starmi accanto, non domandava nulla. Io feci il risentito, non capivo granché; volevo punirlo, lo salutai, me ne andai, che soffrisse pure …
Così per quindici giorni.
Poi il nuovo incontro: ritornammo amici, non occorsero grandi discorsi. Si avviò una seconda stagione per noi; non siamo mai andati a letto insieme (lui mi diceva ogni tanto di sperarlo), vicini però più di prima. Un rapporto diverso, più adulto.
Perderà apposta il collegio Flavio, quell’estate, avrebbe dato volutamente pochi esami; qualcuno intorno stava indovinando, lui si vergognava.
Con gli anni si sarebbe creato una vita sua, affettivamente; ogni tanto mi raccontava, incontri rubati uno dopo l’altro, pure nelle stazioni: a volte storie più lunghe, qualche suo amico me l’avrebbe fatto anche conoscere.
“Ecco il ricordo della mia stupidità, appena giustificabile con l’ingenuità di un diciannovenne, concludo a lezione”; anche il perché della mia gratitudine comunque; “perché tante sono le cose che ho imparato in quelle settimane di giugno’’.
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