Giorni fa in un post un’autrice ha presentato il suo incontro per una serata letteraria (le famigerate presentazioni tanto discusse negli ultimi tempi) dicendo una cosa interessante: che avrebbe parlato non di un suo libro, ma  “delle diagnosi” e del rischio di “fare diagnosi sbagliate”, errore che mette in discussione e in pericolo – spiegava –  l’identità della persona a cui si fanno errate diagnosi.

Mi sono chiesto se fosse un incontro letterario. 

Le autofiction hanno molte declinazioni e sicuramente una componente è anche l’esposizione, sulla pagina, delle proprie problematiche mediche o mentali. 

Non è una novità: raccontare la malattia dal medico Cechov con la sua Corsia n.6 a Thomas Mann del sanatorio sulla Montagna Magica o Incantata che sia, passando per decine di poeti e artisti la malattia fisica (specie polmonare da Keats a Kafka) che psichica (altrettanto la follia, lista lunga da Van Gogh ai giorni nostri) era così diffusa nella quotidianità da essere normalmente parte del racconto. 

Tuttavia, ancora negli anni ’20 Virginia Woolf ci rimase male quando il direttore della rivista “The New Criterion” si mostrò freddo verso il saggio che la scrittrice aveva pubblicato dedicato propri a “Letteratura e malattia”. 

Quel direttore era T.S. Eliot.

LA freddezza di Eliot e l’entusiasmo di Woolf ci dicono dell’inizio di un cambio di sensibilità “biopolitica” (e la differenza di genere e di corpo, in quel caso, rappresentava già cambi di paradigmi futuri) 

Woolf scriveva nel saggio qualcosa che oggi suona assodato: “La gente non fa che raccontare le imprese della mente […]. Secondo loro la mente nella sua torre d’avorio ignora il corpo, in particolare quello colpito dalla malattia, la quale dovrebbe essere tema dei romanzi al pari dell’amore e della guerra”. 

Non è più solo il racconto di uomini o donne malate (la Traviata o signora delle Camelie per dire) ma il racconto la narrazione e la scrittura finiscono ora direttamente nella “Cartella clinica” perché è in discussione – ma come evoluzione della cultura dei meccanismi dei sistemi di controllo dei corpi sul nostro Bios così indagata per esempio da Foucault – anche la forma del linguaggio, le parole usate dalla medicina per definire la malattia e di riflesso l’identità della persona malata.

Domenica scrsa sul Sole 24 era recensito un libro di poesie di Margherita Rimi, medico neuropsichiatra infantile, “Restitutio ad integrum” il titolo. Libro che  intende – scrive chi la recensisce – “infondere forza poetica alle parole della medicina” e cita una poesia intitolata  Eziologia e Patogenesi: 

«Le poesie non si stampano in serie/«nescinu di l’occhi»/ dal naso/ dalle orecchie// poi/ anche dalla bocca// Quando escono dal cuore/ possono essere aortiche/ toraciche/ o/ addominali// E quando nascono dalla chimica/ è un mondo a parte// Per non metterci poi/ la tattica dell’inconscio/ per diventare conscio/ per scoprirsi identità».

Che a mio avviso è una poesia di rara bruttezza letteraria. Però è un sintomo.

Di recente, in un’intervista sulla stampa Nadia Terranova si è chiesta “può la cartella clinica di un nostro familiare, che sia stato amatissimo o mai conosciuto, diventare l’ossatura per un romanzo”?

Se lo chiedeva perché intervistava Serena Vitale autrice per Sellerio del memoir intitolato proprio “Cartella clinica” in cui ricostruiva la dolorosa vicenda della malattia mentale della sua amata sorella, morta molto giovane.

Se lo chiedeva anche perché la stessa Nadia Terranova ha costruito il suo romanzo finalista allo Strega “Quello che so di te” con la cartella clinica della bisnonna come “oggetto chiave”,  nel complesso stratificato intreccio di narrazioni del suo romanzo, pieno di memorie, di genealogie di relazioni dentro l’asse verticale di una famiglia segnata dall’ombra di una possibile “malattia mentale” della bisnonna medesima, che aveva  sofferto un pur breve passaggio di ricovero in un manicomio a Messina nel 1928. Il romanzo ha nel ritrovamento della cartella clinica diciamo solo uno degli snodi emotivi e narrativi più importanti e qui la malattia è uno sfondo che però ha generato più proficuamente anche un percorso formale e letterario in cui Terranova serimenta vie alternative di  narrazione insieme alla ricerca psico-genealogica, ma è aperta sul tempo e sul mondo intorno.

Diciamo che fino a questo livello, la “cartella cinica” è il testo guida di un’esperienza (sofferenza) dominata dal sistema ospedaliero e medico di un passato ormai superato, che consente di costruire una narrazione molto più ampia, che si intreccia proprio con la grande Storia nel caso di Terranova. 

Da quello che ho letto anche Serena Vitale come Terranova si sofferma una storia non propria, ma della sorella, e insieme ricostruisce un mondo, analizza la malattia per come è stata anche fatta la sua narrazione culturale e medica (ma non ho letto questo ultimo di Serena vitale, però  avendo letto i suoi libri, capolavori di indagine biografia e romanzesca dedicati a Puskin o Majakovskij, sono certo sulla fiducia del lavoro letterario anche i questo libro che è più biografico).

 Tuttavia diverso se invece la cartella clinica o la diagnosi è di fatto “LA” narrazione (che diventa ovviamente una narrazione di sé, tutta interna a quel corpo di cui parlava Virginia Woolf) e anziché far penetrare la letteratura dentro la “cartella” fa il contrario: è la “cartella” che invade la letteratura le cose cambiano e questa “tradizione” di letteratura e malattia evolve. MA in questo caso non a vantaggio della letteratura, a mio avviso .

Mi sto riferendo al nuovo romanzo di Alcide Pierantozzi “Lo sbilico” . Se ne parla parecchio e sono uscito dalla mia pigrizia e l’ho comprato per leggere di questo caso letterario, di cui parlano tutti.

. Lo scrittore dichiara (e poi racconta) la sua ossessione per la lingua, l’attingere dalla poesia, però ci vuole un po’ – 60 pagine – prima che questa attitudine si mostri, ma pesa quello sche scrive nel libro e ripete nelle interviste: “non sono  interessato alla letteratura”. 

 Della ricezione dei lettori, dice nelle interviste,  gli interessa soprattutto poter parlare a chi sta vivendo un’esperienza simile, nominando esattamente ciò che si prova (che è però un’auto-diagnosi e Pierantozzi lo premette e lo ripete in nota finale che non è un medico) e si concentra sugli effetti degli psicofarmaci la fenomenologia del corpo e della mente malate. 

Una diagnosi indiretta. Se conosciamo la “medicina narrativa” (1) Pierantozzi tenta una sorta di “narrativa medicale”, cioè aspira al referto. E forse aspira al gioco binario di specchi in cui uno (lo scrittore) legge l’altro (il lettore) sullo stesso terreno (testo-diagnosi)?   La cosa interessante è che nel libro di Alcide Pierantozzi la cartella clinica effettivamente compare e compare subito nel capitolo intitolato “mi chiamo Alcide Pierantozzi “che prosegue  con: “e sono un paziente lucido collaborativo eccetera eccetera”.

 Segue  appunto l’apparente trascrizione da cartella clinica, che Pierantozzi riscrive, a volte sbeffeggia negli stili  (l’annotazione “tre canne die“ )  ma in fondo è questo il punto a cui si àncora: essere il medico di sé stesso che è l’unico modo di non essere quel sé  stesso che non riesce a controllare. 

Però questo continuo accentrare tutto sul “set” di sé medesimo, i farmaci i sintomi, la scelta dello psicoanalista i dialoghi un po’ artefatti con lo psichiatra, non c’è in gioco la letteratura, ma la diagnosi. 

 Si mostra la diagnosi come una sorta di codice a barre della propria unicità della propria singolarità, unita al nome: qui Alcide Pierantozzi. (ma non “come tutti” alla Siti, un gigante).

Nuova via dell’autofiction che però è sempre meno letteraria. E’ una rivendicazione identitaria, l’ergo sum. Il libro dell’Es è la cartella clinica.  La diagnosi che coincide con una e una sola persona, e per evocare il titolo del primo libro di Pierantozzi:  qui l’Uno-malato-Alcide ambisce a essere “uno indiviso” (mentre invece il libro di Pierantozzi era “uno in diviso”) 

La scrittura di Pierantozzi ha i guizzi di quella perentorietà laterale, poetica, tenera e labirintica e problematica che ha molta scrittura all’ americana (ovviamente il modello anche dichiarato è David Foster Wallace, con definizioni e folgorazioni:  “A  San Benedetto del Tronto piove ma io non ci credo” – che tra l’altro mi richiama anche Marino Moretti, il poeta crepuscolare degli anni 30: “Piove, è mercoledì, sono a Cesena”) e appunto poesia, sparsa.

. Si abbassano i toni, poi improvvisamente si alza la temperatura emotiva: “ sono le tre di un’altro giorno di maggio di un anno in cui ogni mattina ho pensato di ammazzarmi”.  

Ho letto in questi giorni un libro di Massimo Cacciari su VanGogh. 

Ho l’impressione che Pierantozzi sia nella condizione di un pittore in crisi che alla fine ambisce a scrivere il saggio cacciariano su sé stesso, senza dipingere. 

Invece noi vogliamo dal pittore che dipinga un paesaggio di abeti e di stelle ma lo faccia con quel modo che “limortaccisua”, ti si ficca negli occhi, e non vogliamo dal pittore che si sostituisce al saggista della sua pittura. 

Ci sono alcune parti in cui AP  “fa il pittore”: l’incontro con il ragazzo in palestra, la scena del geco nel video porno, il camion dei libri. Sul limite inevitabile del metaletterario è tutto il mondo post-scoperta dei dizionari, il più pittorico è l’ “apocalisse degli animali” i l capitolo centrale. Gustosa, sprazzo di realtà le paginette della lite con i balneari tamarri, ma restano un po’ appese. Poi si torna dentro il tunnel di sé.

In ogni caso Pierantozzi alterna questi razzi verticali di scrittura, ma poi ritorna – e gran parte del libro è questo –  sempre al proposito che aveva espresso nelle prime pagine: “essere preciso: nel raccontare questa storia devo solo attenermi al proposito di non inventare niente è da tempo che non mi sento più uno scrittore posso solo raccontare la melma dei giorni”. 

Infatti c’è poca melma.

E dove c’è riemerge l o scrittore bravo che conoscevamo. Per la gran parte delle 200 pagine si incista su di sé, al massimo sposta tutto sul corpo  (complice Lingiardi di “Corpo, umano” letto in presa diretta come in presa diretta diventa dichiaratamente il libro scritto nelal velocita di pochi mesi) in una infinita girandola di diagnosi e autodiagnosi.  

Nel capitolo del “vedersi impazzire” Pierantozzi racconta di come non si guardi più allo specchio. DI essere “ridotto a puro tatto” e vedersi impazzire è “sentirsi tremare le gambe”. Pierantozzi argina questo facendosi “guardare dall’altro” – che è un mix tra disperato narcisismo e fondamento dell’etica – L’altro che lo guarda è la madre. Il rapporto con la madre è forse una chiave che andava sviluppata, fatta diventare allucinazione, come qua e là emerge.

Doveva prendere di più da Bernhard.

La sua lotta è però con la razionalità più che con la follia che vuole domare ma non cavalcare. Pierantozzi non si vede allo specchio ma alal fine sta sempre li davanti allo specchio ad occhi chiusi e si tasta. Invece dovrebbe aprirli sul paesaggio e dipingere. Essere più Zanzotto, che invidiare Lingiardi. 

Scrive frasi come : “ è per una sovrabbondanza di logica che vado in tilt” riferendosi al fatto che la maggior parte delle persone non sa distinguere tra la disabilità psichica e quella intellettiva. Pierantozzi scrive libri, scrive articoli, ma poi – aggiunge – “non riesco a essere altrettanto disciplinato nell’essere io”. Si ferma al rapporto tra l’insorgenza della coscienza e la capacità di organizzare linguaggio. E’ disciplinato nel farlo come un bodybuilder. Scrive che  sta sospeso in una “duplicità di vivere all’incrocio di due percezioni opposte del mondo” per cui “ogni mio ragionamento quando è molto sensato se ne va a rimorchio di un ragionamento erroneo che mi costringe a fughe continue”. 

Ecco la fuga, o  l’energia dell’errore – per dirla con una strepitosa formula di Victor Sklovskij – non produce però un testo-che-scardini, che ci scardini (è il sogno di ogni vecchio lettore) ma viene agito solo in alcune parti.

LA rivoluzione è nel suo corpo, forse i suoi trenta chili di muscoli,  ma non è nella scrittura, se non a sprazzi. Pierantozzi scrive un libro disciplinato, nella sequenza di resoconto, in cui l’aspetto metareferenziale non diventano vocali deraglianti di Rimbaud, ma il referto, la cartella clinica. Romanzo-cartella clinica. Meta-referto. Alcune volte poi  cede al mezzo-trash ( la scena della sega con pornhub + Valerio Magrelli, se volessi fare una battuta, esce fuori l’Abruzzese dandy, per non dire D’Annunzio, corretto da Almodovar, benché si percepisca la disperazione). 

Lo stesso la scena primaria di mamma e papà che fanno sesso con la videocassetta: l’osceno-confessional non è la cosa più interessante, se non per il suo analista ovviamente, intendo dal punto di vista letterario). 

Strano non citi mai un poeta che mi ricorda Pierantozzi, Alfonso Guida. Vabbè.

 Bisogna meditare su cosa significhi per la letteratura di Pierantozzi e come spia di un “sintomo” attitudinale del contemporaneo – un ‘evoluzione dell’autofiction, che vorrebbe eliminare la fiction ma tenere “l’auto-qualcosa”. 

Significativa la scena in cui Pierantozzi descrive il suo metodo per allucinazioni scritte, le verga sul foglio, innescate rirendendosi con un video-selfie dell’iPhone, per stimolarle (lui che ha paura degli specchi) ma resta alla descrizione. Cita Beckett, che è uno che costruito modìndi con le sue allucizioni, non ha detto “di avere allucinazioni”. “Lo Sbilico”, non sbilica granché (È molto più in “sbilico” Bolano). 

 Trattenuto dalle intenzioni di farsi la propria cartella clinica, insomma. Ma non va oltre questo continuare nel vortice intorno alle proprie ambivalenze tra dire “ho deragliato” senza deragliare . 

MA qui il problema diventa generale, sintomo culturale, non di un solo libro, questo libro.

 E’esemplare il “come” la malattia del personaggio “Alcide Pierantozzi” non sia altro che esperienza da dichiarare, come una carta di identità che ambisce ad essere riconosciuta, ma che non vuole sconvolgere la percezione altrui, e  sta più dentro la normalità, qui la normalità del main stream stilistico prevalente, senza farci sobbalzare come promette (ed essere Dino Campana, per dire)  più preoccupato di descrivere la propria esplosione che di fare il botto.

Mari De Santis, commento al romanzo di Alcide Pierantozzi (Lo sbilico)

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