In un tempo in cui gli adolescenti sono spesso descritti come “un problema da gestire”, vale la pena fermarsi a riflettere. Non solo con lo sguardo dell’educatore o del genitore, ma anche con quello del giurista. Perché i ragazzi e le ragazze non sono “altri”, né una categoria da decifrare. Sono persone. E, come tali, titolari di diritti.
A ricordarcelo non è soltanto il buon senso, ma anche il nostro ordinamento giuridico. L’articolo 3 della Costituzione sancisce il principio di pari dignità. L’articolo 34 stabilisce che la scuola è aperta a tutti, e che l’istruzione è obbligatoria e gratuita per almeno dieci anni. Il Codice civile, all’articolo 315-bis, riconosce esplicitamente al figlio il diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente, “nel rispetto delle sue capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni”. E all’articolo 316 affida ai genitori il dovere – non il potere – di esercitare la responsabilità genitoriale tenendo conto dell’unicità del figlio.
Ma c’è un diritto, tra tutti, che rimane troppo spesso inascoltato: il diritto all’ascolto.
Questo diritto è consacrato dall’articolo 12 della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, ratificata dall’Italia con la legge 176 del 1991. Stabilisce che ogni minore, capace di discernimento, ha diritto di esprimere liberamente la propria opinione su ogni questione che lo riguarda, e che tale opinione deve essere presa in considerazione in base alla sua età e maturità.
Un principio chiaro, ma ancora lontano dalla pratica quotidiana. Per questo, nel 2024, il legislatore ha istituito – con la legge 104 – una Giornata nazionale dell’ascolto dei minori, celebrata per la prima volta il 9 aprile scorso. Un segnale importante, che però apre una domanda inquietante: abbiamo davvero bisogno di una legge per ricordarci che dobbiamo ascoltare i nostri figli?
Ascoltare non è facile. Chi lavora nel campo giuridico, come chi opera nella scuola o nella famiglia, lo sa bene. Spesso ci si confronta con situazioni drammatiche, in cui gli adulti si rendono conto troppo tardi di non aver colto segnali evidenti. “Non ce ne eravamo accorti”, “Non ci aspettavamo che…”. Frasi che rivelano una distanza, prima ancora che probabilmente un fallimento educativo.
Eppure, ascoltare non significa semplicemente udire. Non è dare consigli, né correggere. È sospendere il giudizio, accogliere anche il disagio, la rabbia, la fragilità. È rinunciare temporaneamente al proprio ruolo di guida, per essere testimoni autentici della crescita di chi abbiamo davanti.
L’adolescente ha bisogno – e diritto – di essere riconosciuto, accolto, libero di esprimersi senza timore di perdere l’amore, la stima o la protezione. E questo riconoscimento non si costruisce con le regole o con le punizioni, ma con la relazione. Una relazione che nasce, sempre, dall’ascolto.
Ecco perché ascoltare non è solo un gesto affettivo. È un atto giuridico, un obbligo che deriva dalla legge e dal riconoscimento pieno della soggettività del minore. Non è facoltativo. È un dovere.
Allora, oggi più che mai, serve porsi una domanda semplice ma radicale: quante volte ascoltiamo davvero? Quante volte lasciamo che un adolescente finisca una frase, senza interromperlo con una soluzione, una critica, un consiglio?
Ascoltare è la prima forma di tutela ma anche la prima forma di amore e forse l’unica in grado di spezzare il silenzio del disagio e restituire voce, fiducia dignità e speranza ai nostri ragazzi.
Barbara Nardulli
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