Che fare

La scoperta di avere un simile marito, con occulti filamenti gay, è ciò che in concreto ha indotto la moglie – unico motivo – a rompere il matrimonio.  Questo è ben chiaro nella faccenda.

È anche quanto ha convinto chi si è pronunciato sulla separazione, da ciò che emerge, a concedere l’addebito.

Il nostro giudice ci pensa e ripensa. Cosa dovrà fare lui adesso?  Rimugina a lungo i particolari, quelli che conosce, dà sfogo all’immaginazione; sente pian piano che sta orientandosi verso una precisa direzione, quella della condanna.

 Ripete a se stesso che sì, una donna seria, educata in un certo modo, integra e normale come impulsi, affezionata al proprio ménage, la quale scopra all’improvviso di aver un marito mezzo omosessuale (un tempo si sarebbero usati altri termini), ebbene, non potrà non accusare dentro di sé – e se è lei a dirlo bisogna crederle – un forte shock, un serio contraccolpo spirituale.

Qualcosa rispetto a cui, nel momento in cui entri in campo il diritto, la semplice concessione dell’addebito sarebbe troppo poco, non basterebbe    come sanzione.

Non si tratta più di una scappatella perdonabile; è qualcosa di grosso stavolta, un colpo di scena. Una brusca rivelazione. Un elemento che è destinato a proiettarsi all’indietro nel tempo, per una moglie, togliendo senso retrospettivamente a quanto avvenuto sin lì, in famiglia, di giorno e di notte: un mondo intero di ricordi che crolla nella vittima.

  Occorrerà far capo al risarcimento, allora, come seguito privatistico.

  Importano poco le etichette. Ci si trova comunque dinanzi a un vulnus, per la persona, a una lesione fisiologicamente pervasiva; di tipo sia morale che esistenziale. Almeno qualche migliaio di euro sarà giustificato allora, come corpus riparatorio; non meno di cinquemila, così a occhio, diecimila forse.

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