Sono passati più di 25 anni dall’approvazione della Legge n. 68 del 1999 sul collocamento mirato delle persone affette da disabilità ma permangono ancora incertezze interpretative nonostante i successivi tentativi legislativi di aggiustamento 

L’indirizzo inaugurato con la legge del 1999 è aderente ai principi costituzionali sui quali si fonda il diritto al lavoro dei disabili (artt. 2, 3, 4, c. 1, e 38, c. 3, Cost.) ed ha  ricevuto consacrazione sia nella Convenzione ONU 13 dicembre 2006 sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dall’Italia con l. n. 18/2009 e approvata dall’Unione europea con decisione del Consiglio 26 novembre 2009, n. 2010/48/CE, sia nell’art. 26 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE ma già in precedenza, in attuazione della direttiva 2000/78/CE l’Unione Europea concernente la parità di trattamento in materia di condizioni di lavoro e di occupazione, il d.lgs. n. 216/2003 aveva introdotto il divieto assistito da una tutela giudiziaria rafforzata di discriminazione fondato, tra l’altro, “sull’handicap”,.

L’Italia, come accade anche in altri campi, non è sempre sollecita a adeguare l’ordinamento interno alle indicazioni comunitarie e nel 2013, è stata condannata a causa della non corretta (perché ritenuta incompleta) attuazione della dir. 2000/78/CE  e, in particolare, dell’art. 5 che prevede le c.d. “soluzioni ragionevoli”, vale a dire l’insieme di quelle misure che i datori di lavoro devono adottare, ove ve ne sia necessità in funzione delle situazioni concrete e nei limiti della sostenibilità organizzativa ed economica e che riguardano diversi aspetti delle condizioni di lavoro, al fine di consentire ai disabili di accedere a un impiego, di svolgerlo, di avere una promozione e di ricevere la formazione.

Conseguente alla condanna in sede comunitaria per la non conformità della normativa interna alla direttiva 2000/78/CE è stata prevista l’integrazione dell’art. 3, d.lgs. n. 216/2003, nel quale, è stato inserito il comma 3-bis che impone ai datori di lavoro l’obbligo di adottare “accomodamenti ragionevoli” che però è la parte della normativa sul lavoro dei disabili di più problematica implementazione.

Accomodamenti  ragionevoli che dovrebbero essere valutati come parametro di riferimento nel giudizio sul periodo di prova ma che non vengono considerate nell’espressione del giudizio finale.

La norma con la quale il legislatore italiano ha recepito la disciplina sovranazionale e ottemperato alla sentenza della Corte stabilisce al primo periodo: «Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della l. 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori» porta in sé i semi di questa problematicità, disponendo al periodo successivo che «I datori di lavoro pubblici devono provvedere all’attuazione del presente comma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente»

I successivi correttivi non hanno eliminato o ridotto questa tara genetica e l’evitare “maggiori oneri per la finanza pubblica” giustifica la circostanza che quasi mai vengono previsti “accomodamenti ragionevoli” rendendo moltissime volte vana l’aspettativa di un lavoro da parte di soggetti deboli portatori di invalidità. 

Per superare incertezze interpretative e incongruenze normative con la l. n. 227/201, è stata attribuita al governo la delega per la «revisione e il riordino delle disposizioni in materia di disabilità», per  semplificare le norme e le procedure di riconoscimento della condizione della persona, nell’intento di pervenire al pieno esercizio dei diritti civili e sociali «compresi il diritto alla vita indipendente e alla piena inclusione sociale e lavorativa, nonché l’effettivo e pieno accesso al sistema dei servizi» e di promuoverne l’autonomia «e il suo vivere su base di pari opportunità con gli altri, nel rispetto dei principi di autodeterminazione e di non discriminazione in conformità alle previsioni della Convenzione ONU del 2006 nonché della Strategia per i diritti delle persone con disabilità 2021-2030, varata dalla Commissione europea nel marzo del 2021

Dalla  lettura dei principi indicati nella legge delega emerge l’adozione di un approccio multidisciplinare e multidimensionale che assume come riferimento la persona (e la sua condizione di disabilità) nel suo complesso, in tutti gli aspetti della sua esistenza. 

Non è un caso che una parte delle risorse destinate all’attuazione della missione n. 5 del PNRR – concernente il potenziamento e il miglioramento di servizi e infrastrutture che siano in grado di agevolare la realizzazione di un progetto di vita – venga utilizzato per finanziare le riforme previste dalla l. n. 227/2021. 

Si tratta della presa d’atto che l’inclusione sociale delle persone con disabilità passa necessariamente da un ripensamento di sistema attraverso cui perseguire anche l’inserimento lavorativo.

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