Concessionario di auto di lusso, sui quarant’anni: campione dilettante di motocross; i soldi gli uscivano dalle tasche, era conosciuto come “lo zio dei bambini lombardi, buoni e cattivi”. Filantropo, presidente di una fondazione che si occupava di orfani a rischio.
Sulle pagine mondane dei giornali mancava di rado il suo nome.
In città la notizia dell’arresto era esplosa come una bomba. Giornali, tivù, social. La stampa nazionale se n’era anch’essa occupata; commenti di fuoco, inviti a boicottare quelle marche di veicoli, comunque a non fare acquisti dal “mostro”.
Pareva che il giudice americano avesse chiesto, a delle autorità della Lombardia, di inviare all’ufficio di New York lettere-attestazioni di stima, nei confronti del Belloz. Qualcuno l’aveva fatto, sembrava: politici, sportivi, gente dello spettacolo, perfino un vescovo.
A un certo punto scandalo rientrato: Belloz era riuscito a persuadere il magistrato che quelle col Fellow – mai ritrovato dalla polizia – erano semplici fantasie: orrende fin che si voleva, senza basi però di concretezza. Discorsi in libertà, fatti da qualcuno “poco presente a se stesso, in quel momento”; incapace nella sostanza di “fare del male a una mosca” – parole dell’imputato.
Così il Belloz, dietro congrua cauzione, era stato scarcerato; il processo si sarebbe svolto più in là, senza urgenza.
Ecco che l’uomo, qualche settimana più tardi, era potuto tornare in Italia; ed era riparato silenziosamente a Gambiate.
Otto giorni dopo l’arrivo, in una sala cittadina, un collettivo femminista aveva promosso un incontro sui temi della violenza. Tele-Gambiate, una tivù locale, si era organizzata per fare una diretta.
Tanti i presenti alle sei pomeridiane di quel sabato: donne al novanta per cento. E tutti a bocca aperta nel vedere il Belloz che entrava in sala a un certo punto; dalla porta di fondo, andando a sedersi in terza fila – aria di sfida, mento alto.
Era stato riconosciuto, in pochi secondi proteste al culmine. Qualche donna faceva segno di volerlo picchiare, due con l’aria di sputargli addosso: gli addetti alla sicurezza avevano faticato a impedire il peggio.
Gli era stato dato il microfono dopo un po’. Il Belloz aveva cominciato spiegando, fra le urla, che quella telefonata in America era stata una finta, niente più: stupida fin che si voleva, “solo millanterie comunque, roba da videogame”. “Avevo bevuto, quella sera al telefono, sostanze poi; mi sentivo al centro di un fumetto”. “Non potrei infilare dei chiodi neanche dentro un pomodoro”.
Nessuno sembrava credergli, dopo cinque minuti aveva restituito il microfono; uscito lentamente, fra insulti e spintoni poi, ancora più rabbiosi di prima.
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