“Il primo incontro con Lorenzo – ce l’ho stampato dentro – era avvenuto a maggio, la mattina di un venerdì; verso mezzogiorno. Nella passeggiata tra S. Margherita Ligure e Portofino.
Ero ospite per tre giorni di Giorgia, un’amica di Milano; l’avevo conosciuta in università, al corso di diritto privato; affettuosa, pianista dilettante, aveva ereditato una casa lì a Santa Margherita, da sua nonna. Eravamo arrivate il giorno prima.
Quel venerdì Giorgia mi aveva proposto una camminata sul mare, per ammirare il panorama. Giornata fresca, con le nuvole: dopo mezz’ora non sapevamo quanto lontana fosse ancora Portofino. Giorgia era poco esperta, per me la prima volta: eravamo lì a osservare le onde, pensando di tornare, quando una voce ci aveva fatto voltare: ‘State chiedendovi se fare dietro front?’. A parlare era un ragazzo pallido, riccioli castani sulla fronte; seduto a destra su un muretto, all’ombra, in mano degli spartiti musicali. Avevamo risposto che aveva indovinato. ‘Manca mezz’ora per Portofino, – sorrideva, – è mezzogiorno e un quarto adesso, c’è il ritorno poi; vi converrebbe fare marcia indietro, specie se è il primo giorno, come immagino’. C’eravamo consultate, si poteva anche rientrare in autobus; meglio di no, avevamo concluso, consigliabile fare come lui suggeriva, l’avevamo ringraziato”.
“Il giorno dopo, sabato, Giorgia era occupata in faccende sue; verso le dieci c’era un sole pieno, avevo pensato di rifare quella passeggiata. Da sola: qualcosa in quel tipo – gli occhi soprattutto, di un celeste chiaro, lunghi e sottili – mi aveva colpito. A metà strada, stesso punto del giorno prima, lui non c’era; vuoto il posto sul muretto, un po’ delusa io, cosa fare? Mi ero messa carina, per l’occasione, truccata leggermente: due code di capelli sulla nuca, leggings chiari di jersey di cotone.
All’ultimo momento avevo deciso di fare un tentativo, altri cento metri verso Portofino. Girato l’angolo lui c’era in effetti, al riparo di un albero: ‘Volevo vedere, – si era accorto di me, – se ti ostinavi a cercarmi’.
Non avevo risposto per un attimo; ‘Sei un presuntuoso’, mi era venuto spontaneo; fingevo di essere arrabbiata.
‘È il contrario, ti assicuro, – scuoteva piano la testa, – e non dovrai più dimostrarmi niente, in avvenire’. Aveva aggiunto che, ora che c’eravamo ‘ritrovati’, non ci saremmo ‘più perduti di vista’.
Tornando insieme verso Santa Margherita, si camminava piano, gli avevo detto qualcosa di me. Anche dell’occhio, chissà perché subito. Era stato poi il suo turno di parlare: si chiamava Lorenzo Ivaldi, aveva ventisei anni, ‘L’unica cosa che so fare al mondo è suonare il violino, neanche quello tanto bene’. Stava a Santa Margherita per respirare aria buona: ‘I miei hanno una villa qui, ho problemi di salute; devo cercare di riprendermi, passeggiare, non stare fermo’.
Era magro più di quanto non sembrasse: camminava a fatica, respirava con affanno; sguardo intenso, un’eleganza fuori moda. Non avevo mai conosciuto uno così.
Alla fine l’avevo invitato alla festa di Giorgia, che compiva gli anni il giorno dopo; mi aveva risposto che, per ragioni varie, non amava le celebrazioni. Non sarebbe venuto”.
“A fine pomeriggio invece, la domenica, quando ormai avevamo smesso di aspettarlo, era arrivato. Da lontano mi aveva guardato, limitandosi a stringere gli occhi: un saluto muto, lungo tre secondi, come se ci conoscessimo da una vita. Qualcosa che mi era entrato dentro, in un istante; ogni sua cosa, anche il modo di soffiarsi il naso, mi avrebbe fatto effetto ormai.
Stavo in quel momento con un gruppetto di compagni di facoltà, venuti da Milano; per due minuti l’avevo perso di vista.
Erano risuonate a quel punto alcune note di pianoforte, nell’altra stanza. La nonna di Giorgia suonava, in casa lo strumento c’era; dopo un attimo avevo visto la mia amica che girava fra le stanze: il piano continuava intanto, avevo capito che ai tasti c’era lui. Quel non parlarci era un gioco. Mi andava bene: visto il passo che stavamo prendendo, tanto normale il nostro codice non poteva essere. Non ero esperta di musica; molte arie me le aveva accennate mio padre da bambina, lui che le conosceva praticamente tutte. Quella che sentivo mi sembrava l’Appassionata di Beethoven. Una dedica non firmata … avevo deciso di sì.
Qualche minuto dopo avevo lasciato il mio gruppetto, per cercarlo, sapevo che non l’avrei trovato. Giorgia me l’aveva confermato; se n’era andato Lorenzo, chiedendole di trasmettermi i suoi saluti. In quel momento ho capito che faceva sul serio: il mio numero di telefono gliel’avevo già dato, in quel ritorno a due, sul mare il giorno prima. Poteva quindi chiamarmi, ero certa che l’avrebbe fatto. Quella strizzata d’occhi, così precisa dall’altra stanza, bastava per un mese; le feste affollate non erano cosa per noi: Beethoven sì, una dichiarazione segreta, mi ripetevo.
Giorgia mi aveva mostrato il regalo che aveva portato a lei: una scultura in legno chiaro, di betulla, per il compleanno. Composizione tridimensionale, dentro una cornice rientrante; tipo scena di teatro: quattro figure di suonatori del ‘700, tre uomini, al violoncello e ai due violini, una donna alla viola. Un quartetto d’archi in rilievo”.
“Quindici giorni dopo ero ospite a casa sua; a Genova, una palazzina di famiglia, nei pressi di Piazza De Ferrari. Il padre un ricco uomo d’affari, Giovanni Ivaldi; sua madre Doriana si occupava di beneficenza. C’erano due sorelle, Letizia e Matilde, non belle, di poche parole; lavoravano col padre, un po’ innamorate del fratello.
Siccome era chiaro che Lorenzo si era attaccato a me; e dal momento che era una famiglia all’antica, la sua, in cui tutti rispettavano le scelte di ogni componente; ma soprattutto perché Lorenzo era così esposto, inesistente come vita sociale: sin dal primo momento ero stata ben accetta.
Era parso chiaro che non costituivo un pericolo; con la mia aria appartata, sempre a chiedere scusa.
Fu in quei giorni che si cementò l’amore; uso questa parola sì, fra me e Lorenzo. Non facevamo niente se non chiacchierare, andare a passeggio, visitare piccoli negozi mezzi bui. Continuava a regalarmi oggettini liguri, di seconda mano, che non servivano a niente; metà dei quali neanche sapevo esistessero. Io gli raccontavo cento scemenze della mia vita, le approvava tutte; qualcuna me le inventavo, per metterlo alla prova, lui se ne accorgeva ogni volta, ‘Sono quelle che preferisco’, assicurava.
Era chiaro che la tenerezza fisica sarebbe arrivata, un giorno; per il momento non succedeva granché.
Venti giorni ero rimasta dagli Ivaldi, quella prima volta. Tutti ripetevano che con me al fianco Lorenzo stava meglio; rifiorito, non solo come umore. Camminava meglio, respirava discretamente, aveva ripreso col violino. Il problema, avrei saputo a un certo punto, era che soffriva di una malattia del sangue, brutta purtroppo; un tipo raro di leucemia, per cui mancava la cura. Tante strade erano già state tentate, anche con terapie d’avanguardia, in America e in Francia, senza successo. La prognosi, benché incerta, diventava ogni mese più infausta; nessuno sapeva quanto tempo gli restasse”.
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“Così per un anno e mezzo, – aveva ripreso Ina, – un periodo lungo; in cui niente è successo in apparenza.
Con l’esperienza acquisita da Doris ero diventata, fra le altre cose, la sua consulente di tisane. Ogni sera gliene preparavo una diversa, anche di giorno a volte: per le vie respiratorie (issopo, melissa), per il cuore (tarassaco, violaciocca), per le ossa (cicoria, agrimonia), per i nervi (genziana, passiflora); ancor oggi mi chiedo se le beveva perché gli facevano bene, o per farmi contenta. Mi diceva qua e là: ‘Guarda che ti terrei anche senza le tisane’; ero convinta che gli giovassero, comunque mi sentivo preziosa.
I primi tempi avevo continuato a studiacchiare diritto, pensavo di riprendere, lui sempre a incoraggiarmi; poi la cosa aveva perso di senso. L’anno successivo non mi ero neanche iscritta all’università. Mia madre non l’ha mai conosciuto di persona, Lorenzo. Facevamo fatica a viaggiare; su e giù fra Genova e Santa Margherita, tutto il tempo. Una sola volta ci si era spinti sino al lago di Como.
L’amore l’abbiamo fatto a un certo punto; una cosa dolce, senza foga. Era lui a chiedermelo, quando capitava, non so se insisteva per farmi piacere, sapendo che mi rendeva felice: teoricamente non avrebbe dovuto, per la salute era meglio ‘non esagerare’, gli avevano detto i medici.
Ogni tanto saltava fuori dai giornali qualche nuova cura, per la sua malattia; comunque gliene parlavano in clinica. Soluzioni a rischio però, sperimentali, dolorose a volte: Lorenzo aveva praticamente deciso di non tentare più, si faceva poche illusioni.
Col violino continuava, qualche volta ha tenuto piccoli concerti, a Genova, dicevano che era bravo; la cosa lo stancava comunque. A me sembrava straordinario; a volte suonava in casa, per me sola, i motivi centrali dei concerti più famosi, ‘Quale ti piace di più?’. Avevo fatto la mia classifica, Beethoven, Brahms, Mendelssohn, Bruch, Čajkovskij, ogni settimana cambiavo l’ordine però; l’ultimo eseguito lo mettevo sempre in cima: litigavamo qualche volta, solamente per gioco.
Una volta, a Rapallo, ci eravamo messi a fare i suonatori di strada. Lui finto hippy-giramondo, dei tempi andati, che improvvisava nenie per violino sul lungomare; io nella veste di compagna di scorribande, vestita da pagliaccio, col cappello in mano. In due ore avevamo raccolto più di trecento euro.
A un certo punto ha smesso, le forze non gli bastavano più”.
“C’è stato un momento in cui abbiamo parlato anche di matrimonio; senza trovare un accordo. Quando gliene accennavo io – perché volevo sentirmi sua moglie, dividere tutto con lui, fede al dito compresa – allora si sottraeva lui: ‘Non devi rovinare la tua vita per me, hai solo vent’anni, più di tanto io non duro’. Quando me lo proponeva lui, intuivo che era per sistemarmi, per darmi una posizione economica; a dirgli di no ero io. Così non è mai successo.
La sua famiglia ci lasciava liberi, in ogni campo; adoravano Lorenzo e lui continuava a dire che, a parte i suoi e il violino, ero l’unica cosa bella toccatagli nella vita: ‘Mi hai reso felice, cioè non più infelice; hai dato senso alle cose che avevo dentro’.
Lo amavo perché era bello, quel viso sottile e insieme da maschio, che emanava un suo coraggio. Eravamo una coppia assurda, scesa da un quadro, quando uscivamo per strada tanti ci guardavano; pallidi tutti e due, magri, vestiti con colori spenti, stoffe leggere.
In qualche occasione ci divertivamo a ostentare la nostra stranezza. Io velette allora, rose appassite, calze a rete, mantelline da vecchia zia; certe volte camicette trasparenti che portavo senza reggiseno, lui voleva così, magari una sciarpa con disegni a glicine, di chiffon, a coprirmi davanti. Lorenzo un cappellaccio, a tesa larga, pipa spenta in bocca, cravatte larghe a rigoni diagonali, giacche eccessivamente strette, scarpe gialle di pelle da dandy, occhi un po’ truccati perfino; se qualcuno per strada lo guardava fisso, era capace di apostrofarlo sorridente: ‘Ho un male assurdo, non dispero ancora’.
Tristi queste note, troppo dolci? Ci sono al mondo situazioni così …
È morto intorno a Capodanno, le ultime settimane non mi sono mossa da Genova. ‘La signora Ivaldi’, mi presentava a tutti, sporgendosi a sussurrare all’interlocutore: ‘Due corpi un’anima sola’. Ormai le tisane erano rare, voleva ogni volta gli leggessi di quali ‘erbe aromatiche’ si trattava però; lo aiutava a prendere sonno. Doris mi aveva passato un libro apposito. Qualcosa gli raccontavo anche di mio padre, che s’intendeva di tante cose! ‘Siete uguali nei miei pensieri, – gli dicevo, – spero sempre di sognare, la notte, che sto seduta per metà sul ginocchio di papà, per l’altra metà sul tuo; un’ora di seguito, voi due insieme a ninnolarmi’.
Tutte le sere dandomi il bacio della buonanotte ripeteva: ‘Ona come corona, Ena come verbena, Ina come stellina’. Qualche volta aggiungeva: ‘Meno poetiche Ana e Una, domani qualcosa inventeremo anche per loro’ “.
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