Ricordate il caso di Pamela Mastropietro? Aveva 19 anni, era in una comunità ed è uscita ma non era in grado di gestirsi da sola… bisognava che qualcuno – anche il custode della guardiola della comunità – avesse l’autorizzazione per dirle “no, tu non esci a tuo piacimento”. Non sto parlando di marchingegni tipo il TSO – peraltro breve – ma uno strumento che si fondi più su un accordo che sui “muscoli”, che consenta di mettere in campo all’occorrenza, nei lunghi percorsi di cui stiamo parlando, delle “coazioni benigne” fondate su un patto. Il giudice, come leader di una équipe multidisciplinare, va dalla persona e propone un patto: d’ora in poi decidiamo insieme, valorizzando l’elemento dell’accordo, confezioniamo insieme questo percorso lungo. Se trasgredisci però noi abbiamo il potere di importi di fare quello che abbiamo deciso insieme. Si tratta di avere strumenti per far rispettare i doveri che ogni individuo ha verso se stesso o verso altri: un esempio è la persona ludopatica che tre giorni dopo aver preso lo stipendio l’ha già fatto fuori, con i bambini a casa denutriti e senza scarpe o la moglie che non può andare dal dentista. Oppure la donna incinta che deve essere messa nelle condizioni di non assumere sostanze fino al parto. Invece di gestire la cosa con gli strumenti del diritto penale, lo facciamo con strumenti del diritto civile. I giudici lo fanno da almeno 10 anni, con le persone anoressiche: un tempo, dinanzi al rifiuto di mangiare ci si fermava, adesso si fanno decreti meno irresponsabili.
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.