La laguna ghiacciata

Mi piacevano gli aneddoti su Venezia, dei tempi andati, specie le storie raccontate dai miei. Quand’erano    episodi ‘’celebri’’, cui avevano assistito dal vivo, l’interesse raddoppiava; se si trattava poi di avvenimenti ‘’inverosimili’’, autentiche sfide all’immaginazione, tanto meglio.

Non sapevo chi preferire come narratore, se il papà o la mamma. Ciascuno dei due aveva il suo stile, non cercavo di meglio, dipendeva dagli argomenti – già vedevo la mia vita, certe volte, come semplice prosecuzione della loro. 

Le cronache più avvincenti, fin dall’inizio, erano state quelle della ‘’laguna ghiacciata’’, durante l’inverno del 1929, e il racconto del ‘’crollo del Campanile di San Marco’’, nel 1902.

La prima vicenda mi era stata illustrata da mia madre. Nel periodo in cui si erano svolti i fatti lei aveva poco più di ventun anni.

Ecco allora, verso i primi giorni del febbraio 1929 la temperatura, nella Serenissima, era scesa fino a tredici gradi sottozero; la laguna si era ghiacciata, pian piano, diventando ogni giorno più dura e spessa. Così anche i canali interni e larghi pezzi del Canal Grande. Era andata avanti così per un paio di settimane.

Non che non fosse mai accaduta una cosa del genere, nel corso dei secoli. Mai però con punte di freddo tanto forti, così a lungo – e comunque allora i veneziani del ’20 non c’erano.

Il ‘’Gazzettino’’ era stato incerto, in quei giorni, se dare più evidenza all’argomento del gelo estremo in città, oppure alla notizia dei Patti Lateranensi (che venivano proprio allora stipulati a Roma).  Il Concordato, così mi raccontavano, aveva avuto la precedenza in un paio di occasioni.

Di fotografie della gelata veneziana, a cercarle negli archivi, ne esistevano più d’una, sia pubbliche che private; alcune in bianco e nero le avevo potute vedere, in un negozio di robivecchi, dove la mamma mi aveva portato un pomeriggio. Anche papà, fotografo alle prime armi quella volta, aveva fatto sulle Rive una decina di scatti.

Le più interessanti erano le immagini con sfondo    Murano, San Michele, la parte nord-est di laguna insomma: si vedeva gente camminare sulla superficie bianca, procedendo piano, esitante e divertita insieme. La crosta di ghiaccio – linda e solida come all’Antartide, a crespe irregolari – si era rivelata spessa abbastanza da non rompersi, sotto il peso dei corpi; non c’erano stati incidenti, nessuno aveva fatto un bagno fuori stagione.

In alcune foto si vedevano pescherecci immobilizzati nelle banchine. Qualche battello a motore, poi, che tentava a fatica di rompere l’assedio. Gondole segregate in parallelo lungo gli stazi, immobili, senza vita come. Colombi che vagavano, tristi e spauriti, non trovando nulla da mangiare.

Quadri dei secoli precedenti ancora, in certe vetrine specializzate, riproduzioni di vecchi affreschi d’inverno, più o meno immaginari; in cui spiccavano bimbi sorridenti, soldati e maschere, a scivolare e pattinare. 

Sul Gazzettino del 17 febbraio 1929 c’era un trafiletto, di sapore gaio, l’avevo scorso anch’io. ‘’Operai di una ditta quale esempio di allegrezza provvisti di un tavolino e di 5 sedie, di 5 bicchieri e portatisi ad una 60 di metri dalla riva sedettero attorno al tavolo… e diedero da bere anche al ghiaccio per ringraziarlo dell’ospitalità.’’

E la mia mamma, lei proprio, in quei giorni? Stupore per la candida gelata, incredulità durante la prima settimana, mentre la crosta si formava e consolidava.  Aveva voluto posare i piedi sulla superficie ghiacciata, a un certo punto, anche lei, insieme a   un paio di amiche; poco convinte all’inizio, tutte e tre, erano state attente a non scivolare, si erano tenute per mano tutto il tempo. Guanti di lana grossa, per fortuna nessuna sorpresa.

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