Forse sono proprio le professioni uno speciale momento di incontro e di possibile condivisione delle umanità

Sempre più frequenti sono i casi in cui mi viene richiesto l’intervento, quale notaio, al domicilio di una persona affetta da grave malattia, che non le toglie la lucidità anche se la rende meno agile nei movimenti, ad esempio nella sottoscrizione, e/o diversa nel volto segnato da pesanti terapie. Il tema che qui viene ad emergere (ed irrompe all’improvviso con il rischio di trovarci impreparati) non è propriamente giuridico perché in questi casi non è in questione la capacità di intendere e di volere (se non vi fosse quella il notaio non potrebbe procedere). Il tema è metagiuridico, è strettamente umano, e tocca l’umanità di entrambi e di altri ancora, l’umanità del notaio, l’atteggiamento, lo sguardo di vicinanza, un sorriso di partecipazione al di là della funzione, l’umanità della persona che conferisce procura, o stipula altro atto, che sente imbarazzo per la sua situazione ma che forse, dopo aver colto quel sorriso e quello sguardo di vicinanza, potrà superare quell’imbarazzo. L’umanità delle persone attorno a quel tavolo a domicilio, dei testimoni, dei familiari, e, di questi, anche i lineamenti del dolore e della sofferenza del proprio caro e di loro stessi per un triste esito in avvicinamento. Ho sperimentato tante volte queste situazioni, e, di recente, sempre più spesso, e credo che ciò cui sono tenuto, oltre e prima ancora che l’espletamento della mia funzione, è proprio un atteggiamento di rispettosa vicinanza e partecipazione, che viene sempre accolto con parole di ringraziamento non meramente formali, sia a conclusione dell’incontro, sia successivamente quando ho occasione di incontrare il familiare dopo il verificarsi di quel triste esito allora in avvicinamento.

Ed ancora rifletto e penso, da un lato, che queste situazioni possono capitare e capitano anche ad altri professionisti, medici ad esempio e soprattutto, ma anche altre figure professionali; e tutti noi siamo tenuti, particolarmente in questi casi, a far esprimere (a lasciare spazio a) la nostra umanità. E, dall’altro lato, che forse sono proprio le professioni uno speciale momento di incontro e di possibile condivisione delle umanità, per il semplice fatto che chi si rivolge ad un professionista, prima ancora di richiedere una prestazione, si apre al professionista, gli confida una parte di sè, di sogni, bisogni, speranze, sofferenze. Ed allora l’etica delle professioni si basa sul fatto che le stesse intrattengono rapporti non con semplici clienti o, con espressione generalizzata, ‘pazienti’, cioè soggetti affetti da un bisogno, ma prima ancora con persone, sempre meritevoli di dignità, proprio come persona è il professionista cui si rivolgono ed a cui mettono a nudo le proprie fragilità. E queste fragilità condivise gli ricordano che ognuno ha bisogno dell’altro, dell’altro io, limitato, umano e dignitoso, proprio come ciascuno di noi, quindi come lo stesso professionista. Che finisce per riconoscersi nelle fragilità di chi a lui si rivolge e che gli richiedono, e stimolano nello stesso, un atteggiamento di autenticità, rispettosa vicinanza, compartecipazione, ed umanità.

Se così non fosse, il professionista avrebbe una professionalità parziale in quanto mancante della capacità di comprensione del valore esistenziale della sua attività, e di quell’orizzonte di senso che lo investe ma anche lo trascende come persona e come membro di comunità.


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