Consideriamo  la disciplina prevista dall’art. 428 cod. civ., comma 2, in cui viene assicurata all’incapace naturale la possibilità di impugnare a suo piacere i contratti appena stipulati — qualsiasi contratto, con qualsiasi contenuto — con l’unico onere di provare la malafede della controparte.

La circostanza che sia soltanto l’infermo a poter agire per l’annullamento, e non anche l’altra parte, parrebbe a prima vista far pensare che si tratti di un assetto a senso unico, privo di tranelli o di boomerang.

Ma una regola del genere, in realtà, non nasconde e non aumenta forse il rischio che verso il fragile si instauri una sorta di riluttanza programmatica, presso i consociati sani di mente, quelli almeno che hanno a cuore la stabilità dei rapporti? E che ognuno di essi venga indotto preventivamente a evitare contatti d’affari con quel determinato individuo?

Se si ritiene, poi, che anche lo stato psicologico di dubbio vada trattato come la malafede, non è facile prevedere che nessuna persona sensata, di fronte a qualche segno di irregolarità o alle prime bizzarrie del proponente, accetterà mai di sorvolare sulle proprie impressioni di disagio, giungendo ugualmente alla stipulazione del contratto? E ciò anche là dove dovesse mancare ogni timore di futuro inadempimento, per essere l’incapace disposto a effettuare la sua controprestazione seduta stante?

Per l’interdetto e per l’inabilitato, poi, il quadro si fa ancora più pesante. Qualunque partner virtuale, che non intenda correre l’azzardo di un futuro annullamento, potrà sapere facilmente quanto gli occorra – circa le persone da proscrivere dal giro dei propri avventori — attraverso una semplice consultazione dei registri dello stato civile.


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