Elvira Reale, psicologa, Giovanna Cacciapuoti, avvocata
Centro studi “Protocollo Napoli”
Le recenti sentenze della Corte di Cassazione, Sezione VI penale, la n. 21253 del 5 giugno 2025 e la n. 32937 del 7 ottobre 2025, relatrici Paola di Nicola Travaglini e Ombretta Di Giovine, si collocano all’interno di un consolidato orientamento giurisprudenziale che riconosce piena dignità probatoria alle dichiarazioni della persona offesa nei delitti contro l’incolumità individuale e, in particolare, nel reato di cui all’art. 572 cod. pen.
Nucleo essenziale di entrambe è la discussione sulla credibilità della persona offesa.
La prima scaturisce da un ricorso del Pubblico Ministero proposto contro la decisione del Tribunale del Riesame di Cagliari di annullamento dell’ordinanza del Gip di applicazione all’indagato della misura cautelare del divieto di avvicinamento alla persona offesa e ai luoghi dalla stessa frequentati. Nel ricorrere al Tribunale del Riesame l’indagato, legato sentimentalmente alla donna, aveva obiettato che i comportamenti della donna, persona offesa, erano incompatibili con l’ipotesi di un maltrattamento da parte sua, anzi, al contrario, dimostrative di avergli mosso false accuse, di averlo provocato e di averlo ossessionato con la sua gelosia, come confermato anche da una testimone AV e che vi era autonomia tra i due accessi della donna al Pronto soccorso e, di conseguenza, tra le diagnosi del 30 novembre 2024 e del 9 dicembre 2024”, sottolineando gli esiti della consulenza medicolegale del Dott. DS.
La seconda sentenza scaturisce, invece, da un ricorso dell’imputato contro una sentenza della Corte di appello di Brescia che confermando la sentenza di primo grado per il reato di maltrattamenti: “ha ritenuto attendibile la persona offesa con motivazione solo apparente: vieppiù in presenza di contrasto con le testimonianze rese da persone estranee alla sua sfera relazionale (le quali hanno escluso che la donna percepisse corrispettivi economici per le prestazioni sessuali, offerte in totale libertà; hanno riferito di un auto-isolamento della persona offesa dopo la nascita della bambina; hanno descritto situazioni incompatibili con il litigio violento tra le parti)”.
“La Corte d’appello non ha poi considerato che la persona offesa si è costituita parte civile e che era soggetta a crisi depressive che hanno contribuito a farle percepire una situazione difforme da quella reale. Sarebbe stata, dunque, necessaria una verifica più approfondita della credibilità delle sue dichiarazioni”.
E ancora si rileva “L’errata applicazione della fattispecie di maltrattamenti in famiglia a condotte isolate prive di continuità e mancanza di dolo. Gli episodi emersi sono isolati, privi di continuità temporale e logica, con riflessi negativi sulla configurabilità dell’elemento soggettivo”.
In ambedue le sentenze che terminano l’una con l’accoglimento del ricorso della procura, l’altra con il rigetto del ricorso dell’imputato, sono ampiamente sostenute le dichiarazioni della persona offesa quali attendibili, corroborate da fatti circostanziati, senza cedere ai pregiudizi che si nascondono dietro le motivazioni a difesa del presunto autore, avendo ben chiaro che (cass. pen 4913/25): “il reato di maltrattamenti non è un reato di evento, ma di mera condotta, in cui è solo il comportamento dell’autore ad essere oggetto di accertamento (vedi anche Cass. 21253/25) per valutare la sussistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi che lo integrano, non rilevando, dunque, la reazione della vittima o i suoi comportamenti antecedenti”.
La prima sentenza (21253 /25) annulla la decisione del Tribunale di Cagliari che ha escluso la gravità indiziaria dei delitti contestati in via provvisoria a P. ritenendo che non vi fosse dubbio che «il racconto della persona offesa, pur in sé astrattamente verosimile e prima facie credibile, oltre a non aver trovato validi riscontri, non possa dirsi lineare e privo di contraddizioni».
Rileva innanzitutto il Supremo Giudice che: “Spostare, come è stato fatto, l’attenzione dell’accertamento giudiziario, dalle condotte dell’autore a quelle della persona offesa, oltre a non rispondere a criteri di logica giuridica e a confondere tra condotte lecite (nel caso in esame la gelosia della persona offesa) ed illecite (nel caso in esame la denunciata violenza dell’indagato), è vietato anche dalle fonti sovranazionali perché, soprattutto nei delitti di violenza di genere, domestica e contro le donne, ha l’effetto di produrre la «vittimizzazione secondaria» nei termini indicati dalla giurisprudenza di legittimità”.
In secondo luogo: “L’attribuzione alla persona offesa della “responsabilità” di avere subito violenza dal compagno in quanto “gelosa” non si misura neanche con la giurisprudenza più recente di questa Corte che ha distinto, in modo chiaro, i maltrattamenti dalle mere liti familiari, ponendo quale linea di demarcazione l’asimmetria di potere e di genere che connota i primi in una relazione di cui la violenza costituisce la modalità più visibile. Entro tale prospettiva si è affermato, in particolare, che qualificare, in un contesto di coppia o familiare, l’intimidazione, le minacce, l’isolamento, le lesioni, i danneggiamenti, il controllo, l’imposizione di ridurre i rapporti sociali, la coercizione, come espressive di un comune “conflitto”, semmai dietro la provocazione della vittima con condotte del tutto legittime, deforma dati oggettivi e pone sullo stesso piano la lesioni di diritti fondamentali (dignità, libertà, integrità fisica e morale), che non possono subire violazioni o limitazioni, neanche occasionali, e costrutti sociali basati sulla liceità di pratiche punitive per una pretesa insubordinazione femminile ad obblighi, di qualsiasi natura, ingiunti dall’autore che, nella specie, si sono esplicate allorché la donna ha legittimamente richiesto all’uomo di fornire spiegazioni sulla propria fedeltà”.
Viene poi valorizzato il referto medico.
Sul punto la sentenza è lapidaria: “Infine, del tutto infondata andava ritenuta la tesi difensiva, accolta invece dal Tribunale, secondo cui la persona offesa si sarebbe inventata l’aggressione o si sarebbe autoinferta le lesioni proprio alla luce della certificazione del Pronto soccorso del 30 novembre 2024 da cui erano risultate lesioni personali in varie parti del corpo del tutto compatibili con l’aggressione denunciata”
La sentenza di cui è relatrice Paola Di Nicola, è veramente preziosa, in quanto ridà dignità alle donne come persone offese del reato di maltrattamenti in famiglia e violenza domestica, ribadendo i temi transitati nel nostro ordinamento dalla convenzione di Istanbul e rafforzando il quadro normativo con concetti come differenza di potere, coercizione e controllo esercitati dall’uomo sulla donna in virtù di un sistema sociale ancora sperequato a favore dell’uomo.
La seconda sentenza (32937/25) consolida il giudicato del primo e del secondo grado, rafforzando comunque la parola della persona offesa contro i tentativi dell’imputato di ridurne il valore e annientarne la credibilità. “Premesso che in entrambi i gradi di giudizio di merito è emersa la prova di un controllo totalizzante dell’imputato sulla compagna, la Corte d’appello ha risposto alle deduzioni sull’attendibilità di quest’ultima, ritenendone il racconto molto dettagliato e ricco di particolari, espressivi di un vissuto reale e privo di amplificazioni, come desumibile dal fatto che la persona offesa riferì che solo in un’occasione fu oggetto di violenza fisica (mostrando, con ciò, oggettività e mancanza di animosità), seppur a fronte di una violenza psicologica e di comportamenti dominanti realizzati dall’uomo nel corso di ben quattro anni di convivenza”.
“Nel neutralizzare l’argomento dell’instabile condizione psichica della persona offesa, la Corte di appello ha pure specificato – con motivazione completa e non manifestamente illogica – che l’episodio depressivo da cui era stata afflitta si era risolto e che, comunque, nei momenti di difficoltà, la donna si rivolgeva ad un servizio recuperando, dopo pochi colloqui, la stima di sé”.
Questa seconda sentenza riveste rilievo sotto un duplice profilo: da un lato, per la conferma della sufficienza delle dichiarazioni della vittima, laddove dotate di coerenza logico-narrativa e supportate da riscontri esterni; dall’altro, per la valorizzazione della testimonianza resa da professionisti della salute mentale quale elemento oggettivante del vissuto soggettivo della vittima di violenza psicologica.
Di particolare rilievo, infatti, in questa sentenza sono le prove ammesse contro le accuse di non credibilità della PO a causa di un disagio depressivo, la cui origine probabile era nel comportamento stesso dell’autore (l’organizzazione Mondiale della sanità ha censito i disagi di diretta derivazione della violenza domestica e la depressione è in pole position in una graduatoria di patologie di derivazione dalla violenza domestica e di genere).
Le prove sono state fornite dalla psicologa presso cui la donna aveva intrapreso un percorso psico-terapeutico. Tale testimonianza è stata ritenuta decisiva, in quanto comprovava le dichiarazioni della vittima attraverso una valutazione tecnica dell’ambiente domestico sopraffattorio in cui la stessa era costretta a vivere, aggravato dalla conseguente necessità di ricorrere di nascosto all’aiuto specialistico a causa del controllo esercitato dall’imputato. La deposizione ha delineato un quadro coerente di prevaricazione sistematica, sostenuto altresì da una relazione psicosociale redatta da un’assistente sociale e da un’altra professionista, che evidenziava il vissuto di “schiacciamento” espresso dalla donna e i tratti di marcata prevaricazione dell’uomo, connotati da un’impostazione relazionale maschilista.
Leggiamo infatti: “In particolare, i Giudici dell’appello hanno rinvenuto, elencandoli, plurimi riscontri al narrato della donna: nella deposizione, appunto, della psicologa cui la persona offesa si rivolgeva (peraltro di nascosto, essendo controllata negli orari e negli spostamenti) e a cui riferiva delle sistematiche prevaricazioni subite; nella relazione psicosociale a firma di altra dottoressa e dell’assistente sociale, cui pure la donna aveva detto di sentirsi “schiacciata e stanca” e che il compagno mostrava una mentalità maschilista e una personalità prepotente”.
Questo aspetto ultimo, dell’apporto dei professionisti della salute al rafforzamento delle prove che le donne possono portare in dibattimento, è di grande rilevanza perché incita gli operatori e le operatrici sanitari/e a stilare proprie relazioni accurate in merito a quanto riferiscono le persone offese che possono ricorrere a loro sia nei servizi di salute mentale, sia nei servizi sociali e nei centri anti-violenza.
Oggi parliamo più spesso di affinare nei servizi gli strumenti della relazione tecnica che raccoglie il narrato delle donne mettendo in luce in quella narrazione la presenza di indicatori di violenza utili a rappresentare, con maggiore oggettività possibile, il contesto della violenza domestica con le sue sperequazioni di potere; l’obiettivo è di andare così a rafforzare quel quadro probatorio dei reati familiari che per molti anni è mancato e ancora oggi dobbiamo dire, tranne in alcune isole felici, continua a mancare.
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