La Corte nella sentenza n. 76 del 4/6/2025 ha rafforzato i principi costituzionali che riguardano la  dignità della persona, la libertà personale, il diritto di difesa all’interno dell’unica norma del contesto  sanitario che prevede un trattamento forzoso limitativo dell’autodeterminazione. Si tratta della disciplina  del trattamento sanitario obbligatorio (TSO), in particolare gli articoli 33, 34 e 35 della legge 833/1978 (legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale del 23 dicembre 1978). 

La disciplina del TSO prevede attualmente che la richiesta di Trattamento sanitario obbligatorio parta da un medico, che può essere anche un medico di base o del pronto soccorso, e deve essere convalidata da un secondo medico, appartenente a una struttura pubblica. La proposta, accompagnata dal certificato medico, viene inviata al Sindaco, in qualità di autorità sanitaria locale, che può emettere ordinanza motivata di TSO. Successivamente, il provvedimento deve essere convalidato dal Giudice Tutelare entro 48 ore.

Ricordiamo che la disciplina del TSO (e dell’ASO accertamento sanitario obbligatorio) nasce dalla c.d. legge Basaglia n Italia, la legge 13 maggio 1978, n.180 “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori” che fu un grande passo avanti rispetto alla realtà manicomiale, che prevedeva la restrizione dei pazienti, con finalità di controllo sociale più che di cura, senza alcuna garanzia dell’intervento di un’autorità pubblica. 

Prima della legge Basaglia, Il dispositivo  di ingresso in manicomio era regolamentato dalla legge n. 36 del 1904 (la cosiddetta legge Giolitti), direttamente connessa alla giustizia penale e alla pubblica sicurezza, che considerava il malato di mente pericoloso a sé e agli altri e di pubblico scandalo: “Art. 1. Debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri o riescano di pubblico scandalo e non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi”. Secondo la legge,  il soggetto da internare  può essere segnalato da un parente, da un medico o dal Sindaco; il Procuratore del Re dava mandato agli agenti di Pubblica Sicurezza per condurlo nella struttura manicomiale, dopodiché seguiva un periodo di osservazione, poi l’internamento diventava definitivo. 

Quando i manicomi furono aperti, sull’onda delle rivoluzione di Basaglia, i motivi di accesso secondo il genere erano sostanzialmente due: per gli uomini il discontrollo dell’aggressività e per le donne le deroghe dal ruolo sociale femminile (venir meno ai compiti di cura domestici, e il vagabondaggio sessuale). Per tutti si trattava di persone messe ai margini delle società, essenzialmente povere e prive di mezzi di sostentamento,  ma per le donne in particolare valeva l’essere state messe ai margini della famiglia patriarcale.  

 Dal punto di vista delle donne,  questa modifica della realtà manicomiale fu più lenta, faticosa e maggiormente irta di ostacoli legati anche alla realtà biologica/riproduttiva femminile (si parlava infatti all’epoca della questione femminile nella chiusura dei manicomi),  per cui  oggi l’attuale e ulteriore modifica costituzionale (nel lungo percorso attuativo della legge) può configurarsi come portatrice di un maggiore valore sociale proprio perché trae origine  dalla presa di posizione di una donna.  La questione infatti riguarda il caso di un donna del profondo sud (Caltanissetta)  che, ricoverata in ospedale per un presunto tentativo suicidario con farmaci, viene fatta oggetto di un trattamento sanitario obbligatorio. La donna, evidentemente in grado di opporre resistenza ad abusi sulla sua persona e di difendersi, ricorre contro il provvedimento lamentando di non essere  stata informata e di non essere stata audita con possibilità di presentare le prove che avrebbero indicato come non si fosse trattato di un reale tentativo suicidario. 

La Corte d’appello ha rilevato che i vizi denunciati, ovvero la mancata notificazione degli atti, la mancata informazione sui tempi del trattamento, la mancata audizione da parte del giudice tutelare, la mancata allegazione e acquisizione di una relazione medica psichiatrica, la mancata acquisizione di informativa dei carabinieri costituivano adempimenti non richiesti dalla normativa di riferimento.

Da qui nasce in cassazione, cui il caso è sottoposto,  l’interpello alla Corte  costituzionale.

La Corte di cassazione riferisce che la Procura generale ha chiesto, in via principale, il rigetto del ricorso e, in via subordinata, che venisse sollevata questione di legittimità costituzionale in ordine alla disciplina dei trattamenti sanitari obbligatori in condizioni di degenza ospedaliera, in quanto la misura coattiva, privando la persona della autodeterminazione in relazione alle cure mediche e della libertà personale, non sarebbe conforme agli artt. 2, 3, 13, 24, 32, 111 Cost. e all’art. 117, primo comma, Cost. in relazione agli artt. 6 e 13 CEDU.

La Corte Costituzionale risponde quindi positivamente alle questioni che la donna ha sollevato e che sono di  importanza rilevante per i principi costituzionalmente condivisi di libertà e dignità personale.  La dignità della persona deve essere infatti messa al centro anche di un trattamento forzoso e di esso la persona interessata del provvedimento deve essere adeguatamente informata e le si deve dare possibilità di ascolto prima della convalida del trattamento dinanzi al giudice tutelare. 

La Corte  ha censurato la normativa nella parte in cui non prevedeva le garanzie costituzionali minime, ritenendo che la normativa vigente ledeva vari articoli della Costituzione: in particolare gli artt. 13 (libertà personale), 24 (diritto di difesa), 32 (tutela della salute), 111 (giusto processo). In definitiva, la Corte ha ritenuto che la normativa vigente fosse carente rispetto alle garanzie costituzionali minime necessarie ogni volta che si disponga una misura restrittiva della libertà personale per motivi sanitari (TSO), e che mancassero elementi essenziali del contraddittorio e del diritto di difesa. 

Tuttavia, la Corte non ha disposto il rigetto dell’intero articolo, ma ha censurato le parti non rispettose dei principi costituzionali, consentendo al legislatore di colmare le lacune, nel rispetto dei principi stabiliti dalla pronuncia.  In sintesi La decisione rafforza le garanzie procedurali per le persone sottoposte a TSO: esse dovranno essere informate, potersi difendere, essere sentite.

In allegato la sentenza

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